Articolo pubblicato per Linkiesta

Consolidare un nuovo metodo didattico in grado di sviluppare negli studenti capacità non cognitive, o soft skills, è fondamentale nell’ambiente scolastico. In Italia è stata avanzata una proposta di legge per una sperimentazione della durata di tre anni nella scuola secondaria, che tralascia però gli attuali problemi nella formazione degli insegnanti

Il 27 ottobre è cominciato l’esame in Commissione alla Camera della Proposta di Legge per la prevenzione della dispersione scolastica presentata da Lupi, Delrio, Gelmini e altri lo scorso febbraio. La Proposta di Legge, n. 2372, promuove una sperimentazione della durata di tre anni nella scuola secondaria, su base volontaria, di “un nuovo metodo didattico in grado di sviluppare negli studenti competenze non cognitive” con l’obiettivo di ridurre la povertà educativa.

Porre l’attenzione su questo tipo di competenze, riconosciute ormai da più di vent’anni come complementari alle competenze accademiche, è fondamentale, così come la proposta di trasmetterle nell’ambiente scolastico. Cosa si può migliorare per passare all’azione? 

L’apprendimento di competenze non cognitive in famiglia e a scuola
Le competenze trasversali, in inglese soft skills o non-cognitive skills, raggruppano una serie di caratteristiche attitudinali — quali il temperamento, la motivazione, l’approccio ai rapporti interpersonali — che supportano abilità e competenze indispensabili per far fronte alle richieste e alle sfide della vita (Oecd, 2014). Come avviene per le competenze cognitive o tecniche (hard skills), i livelli di partenza e la propensione all’apprendimento delle soft skills non sono uguali per tutti, con differenze tra bambini di estrazioni socio-economiche diverse già visibili in età prescolare e scolare.

Recentemente, alcuni studi hanno mostrato che almeno una parte di queste differenze è collegata allo sforzo che i genitori esercitano nel trasferire le competenze non cognitive. A perdere sono soprattutto i bambini nati in contesti più svantaggiati che rischiano così di rimanere indietro, rafforzando un divario già esistente nella performance scolastica, nell’abbandono, nelle iscrizioni a licei e università.  Per ridurre le disuguaglianze la scuola può avere un ruolo centrale agendo anche sull’apprendimento di competenze trasversali. 

Buoni propositi, poca sostanza
Cosa serve alle scuole per assumere questo ruolo? Tempo, fondi e personale specializzato, oltre alla capacità di gestire queste tre risorse. Se il Ddl articola una risposta alle prime due necessità, tralascia invece la questione del capitale umano e gli attuali problemi nella formazione degli insegnanti.

Innanzitutto, la proposta prevede l’utilizzo del cosiddetto orario dell’autonomia, ovvero quel 20% dell’orario scolastico che le scuole dovrebbero gestire autonomamente all’interno del loro Piano Triennale dell’Offerta Formativa (Ptof). Tale piano nasce per consentire alle scuole di costruire un proprio percorso e identità, ma spesso mancano le capacità amministrative, di pianificazione, e di finanziamento perché questo avvenga.

La questione delle risorse viene affrontata dalla proposta riservando €1,5 milioni annui del Piano nazionale di formazione alla sperimentazione. Il progetto dovrebbe quindi svilupparsi attraverso il piano di formazione d’istituto, che delinea le attività formative per il personale docente ed è deliberato dal collegio dei docenti. Per partire con tale sperimentazione, gli istituti che ritengono il progetto interessante e in linea con il proprio Ptof dovrebbero individuare degli enti accreditati in grado di formare gli insegnanti, i quali assumerebbero a loro volta il ruolo di “formatori” per gli studenti. È qui il tasto dolente.

Infatti, sebbene la riforma Buona Scuola abbia reso la formazione dei docenti “obbligatoria, permanente e strutturale”, non è stato previsto un monte ore predefinito per legge. Un dato che chiarisce le difficoltà di attuazione di questo obbligo alla formazione è il numero di insegnanti iscritti alla piattaforma nazionale Sofia, nata nel 2017 per incrociare la domanda e l’offerta di aggiornamento professionale: solo 381mila su 700mila insegnanti attualmente in organico. Poco più della metà degli insegnanti è quindi attivamente coinvolta.

Per come è pensata, la sperimentazione rischierebbe di rimanere un nulla di fatto. Se l’obiettivo è realmente educare gli studenti alle competenze trasversali, non è chiaro perché oberare ulteriormente il personale insegnante, già carico di obblighi, invece di utilizzare le risorse date dall’autonomia scolastica – le ore e l’organico dell’autonomia. In tal modo, le scuole interessate potrebbero chiamare uno specialista esterno che attivi un corso specifico, volto a stimolare tali competenze.

Nel nostro libro “Ci Pensiamo Noi” abbiamo proposto una figura simile che si occupi anche di attività di orientamento e inclusione. È vero che la procedura spesso non è così semplice, e che molte volte l’organico d’autonomia è relegato a sostituzione e supplenze brevi. Tuttavia, per trasmettere specifiche competenze non accademiche, l’utilizzo di questi strumenti, magari potenziati, sarebbe più efficace rispetto alla preparazione generalizzata degli insegnanti, che come abbiamo visto sconta gravi difetti.

Infatti, l’attuale sistema rende difficile assicurarsi che le competenze per trasmettere soft skills siano distribuite in modo uniforme. Non solo la formazione degli insegnanti è decisa dalla singola scuola attraverso il collegio dei docenti e seguendo il proprio Ptof, creando inevitabilmente disparità, ma mancano anche incentivi individuali.

Dalla ricerca di Talis 2018 emerge che solo una minoranza degli insegnanti è interessata a potenziare le proprie competenze riguardo alla didattica per alunni con bisogni educativi speciali (15%), in contesti multiculturali (14%), o riguardo alle competenze trasversali (13%).  Sebbene sia chiaro che tali competenze sono fondamentali per l’intero corpo docente, l’attuale sistema rende la loro obbligatorietà impossibile. Perciò, per incentivare lo sviluppo di competenze trasversali, la strada più semplice ed efficace ci pare quella di incoraggiare percorsi educativi con esperti esterni. 

ConclusioneLa scuola può essere il luogo adatto per assicurare uguali opportunità e risorse a tutti gli studenti, incluse le competenze trasversali. Serve però più pragmatismo nel considerare l’attuale sistema di lifelong learning dei docenti e di utilizzo delle risorse dell’autonomia. Introdurre figure specializzate sullo sviluppo di competenze non-cognitive può da un lato ridurre il carico di lavoro sugli insegnanti, dall’altro garantire uno standard di qualità simile tra le scuole e gli alunni partecipanti.

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