Articolo pubblicato su Linkiesta

Le imprese controllate dallo Stato non sono salvadanai da cui attingere per ripianare il debito pubblico. L’intervento deve essere limitato nei casi in cui effettivamente necessario.


Sintesi

  • La recente Nadef propone la cessione di quote di partecipate statali per ridurre il debito pubblico. Tuttavia, mancano dettagli su questa strategia.
  • Le imprese controllate dallo Stato italiano sono numerose, ma molti settori non giustificano tale intervento. Le inefficienze, soprattutto a livello locale, sollevano dubbi sull’efficacia di questo controllo pubblico.
  • Il Testo Unico sulle Società Partecipate ha tentato di razionalizzare l’intervento pubblico, ma il suo impatto è stato limitato. La trasparenza e una governance efficace sono fondamentali per ottimizzare il ruolo delle società statali nell’economia.
  • È cruciale che il governo adotti politiche di lungo periodo per migliorare la governance delle partecipazioni statali anziché considerarle solo risorse finanziarie per affrontare il debito pubblico. Un uso efficiente e trasparente di queste risorse può portare a un maggiore benessere sociale.

La Nadef approvata nel settembre 2023 prevede, tra le misure di contenimento del debito, entrate pari all’uno per cento del Pil tra il 2024 e il 2026 derivanti dalla cessione di quote di imprese controllate dallo Stato. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti hanno più volte confermato l’intenzione del Governo di procedere in questa direzione, ma al momento non ci sono informazioni più dettagliate. Se da una parte l’obiettivo del Governo è solo fare cassa senza cedere il controllo, ovvero cedendo quote di minoranza, dall’altra può essere utile sfruttare l’attenzione del dibattito pubblico sul tema delle controllate statali per evidenziare i due problemi principali che lo riguardano in Italia: la scarsa razionalizzazione delle partecipazioni e la mancanza di regole di governance esplicite.

Un recente report di Istat mostra che nel 2020 le unità economiche partecipate dallo Stato erano 7.969, con 908.571 addetti in totale. Oltre ai giganti come Poste e Ferrovie, il nostro Paese è costellato da piccole e medie imprese partecipate dallo Stato. Nel 2018, l’ottantaquattro per cento delle imprese partecipate avevano meno di cinquanta dipendenti e in quattro casi su dieci la partecipazione avveniva tramite amministrazioni locali. L’incidenza delle partecipate in termini di occupazione è uniforme sul territorio nazionale, tra l’uno e il tre per cento. Fa eccezione il Lazio, dove quindici lavoratori su cento sono impiegati presso imprese con quote statali.

L’intervento dello Stato è motivato in mercati, come ferrovie, distribuzione dell’acqua o autostrade, caratterizzati da monopolio naturale. In questi mercati, a causa di ingenti costi fissi, sarebbe “naturalmente” presente una sola impresa e il servizio sarebbe erogato a un prezzo superiore a quello concorrenziale. In un monopolio naturale regolato, invece, il prezzo è fissato al costo medio e il benessere collettivo è massimizzato. Lo Stato può intervenire anche per motivi di politica industriale, se, per esempio, ritiene importante far crescere imprese in uno specifico settore – è il caso di Infratel per la diffusione della banda larga. Infine, le amministrazioni pubbliche spesso controllano società che hanno rilevanza strategica e militare – si pensi a Leonardo –, ricorrendo anche, se necessario, al golden power.

Cosa non funziona

Le condizioni che giustificano il controllo pubblico si verificano in un numero limitato di settori. Nel nostro paese, tuttavia, l’intervento della Pubblica Amministrazione nell’economia è molto più ampio. L’Ocse nel 2014 ha costruito un indice che misura il numero di settori in cui la Pa controlla almeno un’impresa: l’Italia risultava terza nell’Unione Europea. Questo risultato è guidato in gran parte dalla diffusione delle controllate partecipate dalle amministrazioni locali, che in molti casi presentano segnali di inefficienza. Come mostra uno studio del 2016 della Commissione Europea, il ventuno per cento delle partecipate dalle Pa locali non fornivano servizi di interesse pubblico. Almeno tremila avevano meno di sei dipendenti e nel cinquanta per cento dei casi il numero di dirigenti era maggiore del numero di dipendenti.

Le inefficienze delle partecipate locali sono evidenti anche nei settori dove la loro presenza è giustificata da ragioni di interesse generale. Infatti, come mostra il Consumer Market Scoreboard della Commissione Europea del 2018, i servizi solitamente forniti dalle partecipate locali (fornitura di acqua ed elettricità e trasporto locale) sono quelli che lasciano gli utenti italiani meno soddisfatti.

Lo studio della Commissione Europea del 2016 ha anche confrontato l’andamento dei prezzi dei servizi regolati a livello locale (solitamente forniti da imprese controllate dalla Pa locale) con l’indice generale dei prezzi. Tortuga ha replicato l’analisi fino al 2023 e ha confermato che i prezzi dei servizi regolati a livello locale crescono più dell’indice generale (fatta eccezione per il 2022, quando l’indice generale ha subito un’accelerazione a causa dell’inflazione.

La direzione giusta

In questo contesto, riteniamo siano urgenti politiche di razionalizzazione dell’intervento pubblico, in particolare a livello locale, per renderlo più chiaro e più efficace nei casi in cui effettivamente necessario. Inoltre, le politiche devono innanzitutto rivolgersi alle imprese partecipate locali, che sono più difficili da controllare, anche perché oggetto di minore attenzione mediatica rispetto alle grandi società controllate. 

Una direzione simile è stata perseguita durante il governo Renzi, con l’introduzione del Testo Unico sulle Società Partecipate. Questo vieta alle amministrazioni pubbliche di costituire e mantenere anche indirettamente partecipazioni in società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, in particolare la produzione e la gestione delle reti. Il Tusp va nella direzione suggerita dalle linee guida Ocse sulla governance delle società a partecipazione statale. Infatti, Ocse suggerisce di esplicitare gli obiettivi che giustificano l’intervento statale e farne oggetto di revisione periodica.

Non sono disponibili molti dati per analizzare l’impatto della riforma. Tuttavia, come emerge da un report del Servizio Studi della Camera dei Deputati del 2022 (che usa analisi del Mef del 2017), appena dopo l’introduzione del Tusp, più della metà delle partecipazioni pubbliche sono risultate non conformi. Inoltre, per il quarantasei per cento delle partecipazioni non conformi, «le relative amministrazioni hanno espresso la volontà di mantenere la partecipazione, senza prevedere alcun intervento di razionalizzazione».

Questi elementi ci fanno pensare che, nonostante il Tusp sia stato un passo nella giusta direzione, il suo impatto sia stato limitato. Inoltre, la scarsità di dati pubblici sul tema rende difficile un’analisi di impatto rigorosa. È proprio la scarsità di dati a suggerire che ci sia spazio per ulteriori riforme. Le linee guida Ocse, oltre a specificare i criteri di intervento statale, indicano l’importanza di presentare chiaramente le ragioni per la partecipazione pubblica: mentre alcuni paesi (fra cui Francia e Germania) esplicitano la loro policy di partecipazione pubblica con dei principi generali, l’Ocse ancora nel 2021 (quindi dopo l’implementazione del Tusp) classificava l’Italia tra i paesi in cui gli obiettivi dell’intervento pubblico non sono chiaramente definiti a livello nazionale, ma sono specificati ad hoc negli statuti delle imprese controllate.

Inoltre, in Italia il reporting, essenziale per la responsabilità del management, riguarda solo variabili finanziarie, senza coprire impiego, composizione e remunerazione del consiglio direttivo o singole imprese. In questo senso, la Svezia con il suo report annuale costituisce un esempio virtuoso. Sono anche presenti linee guida sulla composizione del consiglio direttivo. Il Tusp ha introdotto nuove norme di governance (in particolare sulla scelta e sui compensi massimi degli amministratori), ma altri passi avanti sono auspicabili: l’Italia, richiedendo una quota di direttori indipendenti (che, cioè, non fanno parte del management dell’azienda), si allineerebbe con paesi come Germania e Francia.

Il controllo di società e imprese da parte dello Stato è uno strumento che, se usato in modo efficiente, permette di migliorare significativamente il livello di benessere della società. Per questo motivo, è importante che le risorse impiegate siano gestite con cura e in modo trasparente. Il Governo dovrebbe considerare soprattutto queste politiche di lungo periodo per migliorare trasparenza e governance, invece che guardare alle proprie partecipazioni solo come salvadanai da cui attingere per ripianare il debito pubblico.

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