Articolo pubblicato per Domani (edizione del 10 maggio 2023)


Sintesi

  • La natalità in Italia è ai minimi storici: per la prima i nuovi nati sono stati meno di 400 mila. La causa di questo calo va ricercata nella mancanza di pari opportunità tra uomini e donne, ma in Italia questa chiave di lettura non è ancora entrata nel dibattito pubblico.
  • Perché è importante parlare di questo tema? In Italia poche nascite si combinano ad una elevata aspettativa di vita, provocando il calo della popolazione attiva, ossia della parte di popolazione impiegata nella forza lavoro che contribuisce a produrre il reddito reale necessario a sostenere la parte di popolazione inattiva (bambini, studenti, e soprattutto anziani).
  • I paesi in cui le nascite negli ultimi dieci non sono calate, come Svezia e Germania, sono proprio i paesi con tassi di occupazione femminile più alti, come Svezia e Germania; questi paesi – a differenza dell’Italia – non costringono le donne a scegliere fra avere figli e perseguire la carriera lavorativa. 
  • Come fare per risolvere questo problema? Gli studi scientifici indicano come i congedi parentali paritari e un’offerta pubblica capillare di servizi per l’infanzia siano gli strumenti più efficaci in questo senso. Il governo italiano, tuttavia, negli ultimi anni non ha fatto i giusti passi avanti su questo fronte.

Il calo delle nascite (-1,9% rispetto al 2021), il velocissimo invecchiamento della popolazione e la rinuncia al desiderio di paternità e maternità sono tematiche cruciali, come segnala il report Istat 2022 sulla dinamica demografica. Per la prima volta in Italia, infatti, i nuovi nati sono stati meno di 400mila. Ma da che cosa è causato questo calo così drammatico? La letteratura scientifica e l’evidenza empirica sottolineano il ruolo della mancanza di pari opportunità tra uomini e donne, ma in Italia questa chiave di lettura non è ancora entrata nel dibattito pubblico.

Perché parlare di scarsa natalità

In Italia, il tasso di fecondità totale (numero medio di figli per donna) è stato pari a 1,24 nel 2020, valore molto inferiore al 2,1 necessario per il mantenimento stabile della popolazione.

La scarsa natalità assume contorni preoccupanti alla luce della situazione demografica italiana e della struttura per età della popolazione. La riduzione delle nascite in Italia si somma a una bassa mortalità e a un’elevata aspettativa di vita. Questa situazione ha reso sempre più pronunciato il calo della popolazione attiva, ossia la parte della popolazione che è impiegata nella forza lavoro e contribuisce a produrre il reddito reale necessario a sostenere la parte di popolazione inattiva (bambini, studenti, inattivi e soprattutto anziani), che è in aumento (figura 2). L’impatto del calo della fecondità sul rapporto tra il numero di anziani e di individui in età lavorativa è cruciale, poiché il nostro sistema pensionistico è supportato dai contributi versati dai lavoratori. Se queste tendenze rimarranno invariate, sarà difficile per i decisori politici non ricorrere a un maggiore indebitamento per garantire i servizi essenziali o a interventi per ritardare l’età pensionabile, come è stato recentemente fatto in Francia.

Il ruolo dell’inclusione femminile nel mercato del lavoro

Molti studi demografici identificano nel livello di istruzione e occupazione femminile le variabili determinanti per comprendere il calo della fecondità. Paesi come Svezia e Germania, che hanno mantenuto rispettivamente pressoché costante e in crescita il numero delle nascite dal 2011 al 2019, hanno tassi di occupazione femminile tra i più alti in Europa (rispettivamente 73% e 74%, dati Ocse). In Italia, invece, nella fascia d’età dai 20 ai 49 anni il divario tra uomini occupati e donne occupate in presenza di un figlio è del 28%, contro un 10% in assenza di figli a carico (dati dell’Osservatorio Con i Bambini, aggiornati al 2020). Ciò testimonia che in Italia questi due aspetti sono ancora difficilmente conciliabili, per via dell’assenza di adeguate politiche pubbliche.

Come spiegano alcuni studi, su tutti il paper The Gender Revolution, l’implementazione di politiche pubbliche volte alla concretizzazione di un equo accesso al mercato del lavoro ha un effetto positivo sull’occupazione femminile e sulle nascite. In Italia, tuttavia, il contesto sociale attribuisce ancora alle donne le responsabilità principali nella crescita dei figli, costringendole a scegliere fra avere figli e perseguire la carriera lavorativa. Diversamente, nei casi di Svezia e Germania, una maggiore integrazione del padre nella vita familiare fa sì che la natalità sia positivamente correlata con l’occupazione femminile.

Le politiche che (non) stiamo implementando

Le politiche a favore della famiglia contribuiscono in modo decisivo ad aumentare il tasso di fecondità e i loro effetti non sono solo temporanei. Gli studi scientifici indicano come i congedi parentali paritari e un’offerta pubblica capillare di servizi per l’infanzia siano gli strumenti più efficaci in questo senso, mentre gli effetti dei trasferimenti monetari sono probabilmente solo transitori. Se attuate in modo combinato, queste due politiche consentono alle madri di non lasciare in modo definitivo il proprio lavoro mentre si occupano del neonato insieme ai padri, per poi tornare al lavoro retribuito quando il bambino è pronto per essere accudito da altri.

L’Italia, tuttavia, non ha fatto negli ultimi anni i giusti passi avanti su questo fronte. Nonostante ci siano state delle proposte di legge per estendere fino a tre mesi il congedo di paternità totalmente retribuito (la prima presentata nel 2019), si rimane fermi a soli 10 giorni. Anche il fronte degli asili nido non è esente da situazioni critiche. Nel 2020, il tasso di copertura di posti in asilo nido per la popolazione dai 3 ai 36 mesi era del 27%, sei punti percentuali sotto la soglia fissata dal Consiglio Europeo nel 2002. Per colmare il divario, il Pnrr ha stanziato 3 miliardi di euro per la costruzione e/o ristrutturazione degli asili nido, ma non ha previsto dei fondi per le successive spese correnti, che vengono lasciate a gravare sui singoli comuni. La conseguenza è che l’attuale attribuzione dei fondi del Pnrr non pare sufficiente a garantire un’omogenea copertura al 33% di servizi per l’infanzia nel paese.

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