Articolo pubblicato per Linkiesta

La misura per tutelare i lavoratori prima o poi avrà una fine. Il prossimo esecutivo dovrà risolvere un compito non facile: sostituire la cassa integrazione con una Naspi semplificata, migliorare i Centri dell’impiego e sopratutto investire nella formazione.

Prima delle dimissioni di Giuseppe Conte, in questi giorni gli esponenti del governo hanno incontrato i sindacati per proseguire la discussione sulle politiche del lavoro da attuare nei prossimi mesi. È importante che il dialogo parta da una considerazione semplice ma granitica: il blocco dei licenziamenti, prima o poi, avrà una fine. È fondamentale quindi immaginare già da adesso come gestire la fase del mercato del lavoro che ne seguirà. Fino a oggi la risposta del governo è stata quella di provare ad arginare la perdita dei posti di lavoro in tutti i modi, dalla cassa Integrazione fino, appunto, al blocco dei licenziamenti.

Un approccio adeguato nella prima fase della pandemia, in cui il blocco forzato del sistema economico determinato dall’esigenza di tutelare la salute rischiava di far scomparire posti di lavoro la cui motivazione economica non era invece venuta meno. Questa stessa risposta non è più adeguata però nella fase che ci apprestiamo ad affrontare: una fase in cui l’emergenza pandemica comincia a declinare e in cui non possiamo immaginare di tenere ancora congelata l’economia. In questa fase occorre passare, con un gioco di parole, dal blocco dei licenziamenti allo sblocco delle assunzioni. Se, cioè, finora ci siamo occupati di preservare gli esistenti posti di lavoro, il cuore della discussione ora deve diventare come crearne di nuovi.

La disoccupazione si combatte soprattutto così. Purtroppo il nostro paese è sempre stato strutturalmente poco capace di agire su questo fronte. Eppure, il drammatico momento che viviamo, unito all’occasione di spendere bene i fondi del NextGenerationEU, rende determinante affrontare con decisione il capitolo delle politiche attive del mercato del lavoro, ovvero tutte quelle politiche volte a riaccompagnare lavoratori disoccupati a un posto di lavoro.

Alcuni spunti per questa fase. In primo luogo la cassa integrazione deve smettere di essere lo strumento principe per lasciare spazio alla Naspi, il sussidio di disoccupazione universale introdotto nel 2015. Una Naspi che però venga semplificata, rimuovendo il requisito delle 30 giornate lavorative (oggi probabilmente più una complicazione burocratica che altro), e potenziata, introducendo una durata minima di 3 mesi per tutti i beneficiari (a fronte di una durata minima attualmente di un mese e mezzo). Una Naspi che sia rafforzata anche nel suo legame con i Centri per l’Impiego, rendendo più efficace la presa in carico del beneficiario da parte di questi ultimi, in modo tale da non essere solo un sussidio passivo per chi rimane disoccupato, ma uno strumento attivo per aiutare a rientrare tra gli occupati.

E proprio i Centri per l’Impiego sono un altro tassello chiave. Invece che inutili e inefficaci duplicazioni (i navigator), occorre potenziare gli attuali CPI (centri per l’impiego) assumendo almeno 4.000 unità. Assunzioni che sono di competenza regionale e in merito alle quali un piccolo gruppo di 5 Regioni si è in realtà già mosso la scorsa estate. Ma attenzione: personale qualificato, che possegga le competenze necessarie per comprendere le necessità di ciascun lavoratore e accompagnarlo nel suo rientro a lavoro. Quindi spazio agli ingegneri e agli economisti per la creazione di piattaforme di raccolta e analisi dati, agli psicologi del lavoro, agli esperti di auto-imprenditorialità e di scouting aziendale.

Da ultimo la formazione dei lavoratori: non possiamo illuderci che la composizione del mercato del lavoro dei prossimi anni sarà uguale a quella del passato. L’innovazione digitale e la transizione ecologica avevano già reso urgente una trasformazione. La pandemia lo ha reso ineludibile, come emerge anche dai dati di Excelsior Unioncamere. E dare ai lavoratori gli strumenti per formarsi e imparare lungo tutto l’arco della propria vita è fondamentale per evitare che si trovino spiazzati da questa trasformazione. I nostri vicini francesi hanno introdotto in passato il Compte personnel de formation, che garantisce a ogni lavoratore 500 euro all’anno da spendere in formazione, anche online.

Bisogna riconoscere che il Fondo Nuove Competenze inaugurato dal Ministero del Lavoro è una bella novità, che va nella direzione da noi auspicata. Il fondo ha una dote che appare sufficiente per avviarne l’uso (la dote è di 730 milioni), ma qualora il dispositivo ingranasse la giusta marcia sarebbero decisamente necessarie maggiori risorse per renderlo strutturale (il Compte personnel de formation ne richiede circa 750 milioni annuali). Bisogna anche aggiungere che il Fondo Nuove Competenze pecca di uno dei mali tipici delle politiche italiane: la complessità.

La procedura richiede infatti un accordo collettivo per la riduzione del carico di lavoro e la dimostrazione di requisiti formativi, questi ultimi poco chiari e che rischiano di essere molto discrezionali. Uno dei fattori critici per il successo del Compte personnel de formation si sta rivelando il controllo della qualità e la selezione delle formazioni sovvenzionate, la trasparenza dei dati, e la facilità d’uso da parte dei lavoratori, senza passare da procedure burocratiche ma neanche da intermediari come azienda e organizzazioni di categoria. Possiamo sfruttarne l’esempio

In definitiva, se vogliamo che il mercato del lavoro italiano sia un luogo che offre opportunità e genera ricchezza per tutti, dobbiamo lasciarci alle spalle il blocco dei licenziamenti e capire come sbloccare le assunzioni. Dobbiamo smettere di pensare a come congelare l’esistente e cercare di capire come creare il nuovo. Speriamo che questo consiglio sia ascoltato anche al tavolo tra ministero del Lavoro e sindacati.

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