Articolo pubblicato per Linkiesta

Con la recessione potrebbero diminuire le immatricolazioni e aumentare gli abbandoni degli atenei. Con il decreto Rilancio il governo ha provato a dare una risposta, che potrebbe non bastare

Non stiamo vivendo un periodo di emergenza: stiamo vivendo un periodo di emergenze. Prima quella sanitaria, poi quella economica, accompagnata ora dall’emergenza educativa. In queste settimane, scuole e università hanno cercato di adattarsi alle nuove modalità di didattica a distanza, tra difficoltà e qualche successo.

Sebbene riportare il sistema scolastico alla didattica in presenza sia un’assoluta priorità (avanziamo alcune proposte qui), dobbiamo ricordare che anche il mondo universitario è messo a dura prova dalla crisi.

Date le diverse modalità didattiche, l’università ha probabilmente retto meglio al contraccolpo della didattica online. Tuttavia, questo è solo uno degli effetti (e forse il meno preoccupante) della crisi.

Con l’avvicinarsi della fine dell’anno accademico in corso, e l’inizio del prossimo, si iniziano a temere serie ricadute sulla vita e sul percorso degli studenti già durante il passaggio dalla scuola superiore all’università: un momento molto delicato, il cui equilibrio potrebbe essere compromesso dal lockdown degli ultimi mesi.

Proprio di questo abbiamo parlato in un precedente articolo, sottolineando la necessità di fornire agli studenti quanti più strumenti e informazioni possibili per potersi orientare verso il loro futuro. I problemi non finiscono qui: i mesi che arriveranno saranno cruciali anche per l’impatto della crisi economica sulle immatricolazioni e sugli abbandoni dell’università.

Intuitivamente la riduzione di disponibilità economiche delle famiglie può portare a una riduzione delle immatricolazioni. Inoltre, il peggioramento del mercato del lavoro può ridurre l’incentivo a studiare, dal momento che opportunità lavorative e salari post-laurea potrebbero non valere l’investimento aggiuntivo in istruzione: laurearsi durante una recessione non sembra infatti offrire una prospettiva rosea.

Allo stesso tempo, però, durante una situazione di emergenza il costo-opportunità di frequentare l’università (ovvero il salario da lavoro cui uno studente rinuncia mentre studia) scende, mentre sale l’incentivo a rimanere sui libri.

Comprendendo che la crisi ha una natura temporanea, i giovani potrebbero decidere di iscriversi maggiormente all’università: così durante la crisi studieranno – evitando il rischio di lunghi periodi di disoccupazione – e quando la crisi sarà passata lavoreranno.

Capire quale di questi effetti prevalga effettivamente diventa una questione di dati. Sfortunatamente, varie ricerche condotte nel nostro paese a seguito delle due recenti recessioni ci inducono a non essere ottimisti.

Il grafico mostra l’andamento degli iscritti all’università italiana negli ultimi anni. Il calo negli anni successivi alla crisi sembra drammatico, anche se l’impatto non è stato lo stesso per tutti gli studenti.

Secondo una ricerca dell’economista Emanuela Ghignoni, infatti, la Grande Recessione ha aumentato significativamente la probabilità di interrompere gli studi per gli studenti provenienti da famiglie a più bassa estrazione sociale e meno performanti dal punto di vista accademico.

Sembra quindi difficile che prevalga l’ipotesi di un effetto positivo della crisi sulle iscrizioni e sugli abbandoni: il rischio che corriamo come paese è invece quello di un declino prolungato e un aumento delle disuguaglianze.

Per quanto riguarda l’impatto della crisi che stiamo vivendo, il Ministro dell’Università Manfredi ha lanciato per primo l’allarme paventando un crollo del 20% delle immatricolazioni (meno 60 mila iscritti).

Questo numero è stato poi ridimensionato da uno studio dell’Osservatorio Talents Venture, che ha quantificato la riduzione in un 11%: un numero comunque alto. Al di là del dibattito sulle stime, se, come sembra, la crisi sanitaria è ormai alle spalle e se non dovessero scoppiare nuovi focolari da qui a settembre, è doveroso mettere in campo misure per contenere la contrazione delle matricole e un potenziale aumento di abbandoni.

Serve l’intervento congiunto delle università, che dovranno dare certezze in merito alle proprie attività, e dello Stato (sia in quanto stato centrale sia in quanto enti locali) affinché si mettano in campo quanto prima misure sul piano dell’orientamento e sul piano economico.

Cosa è stato fatto nel decreto Rilancio

Il decreto Rilancio recentemente emanato dal Governo ha provato a dare una prima risposta all’emergenza universitaria. Due sono le misure che ci preme richiamare qui: in primo luogo l’aumento di 165 milioni del Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo) dell’università, ovvero il fondo con cui lo Stato contribuisce al funzionamento dei vari atenei.

Lo scopo di questo aumento è quello di allargare la no tax area, ovvero la platea di studenti esentata da tasse. Nel complesso il Ffo comprende risorse per circa 7 miliardi di euro. Di questi, 105 milioni vanno a compensare la no tax area. L’aumento quindi sembra consistente, anche se limitato al solo 2020.

Il decreto ha poi stanziato 40 milioni per il Fondo Integrativo Statale (Fis) per le borse di studio, con il quale lo Stato supporta le regioni (che hanno la competenza in materia) nell’erogazione di borse di studio. Per avere un ordine di grandezza, nel 2018 il FIS ammontava a 237 milioni di euro. L’aumento previsto dal decreto non è quindi indifferente, anche se, come per il Ffo, si tratta di una misura limitata al solo 2020.

Due proposte di buonsenso

Cosa fare quindi dal punto di vista economico? Offriamo due spunti di riflessione. In primo luogo, congelare e non cancellare le tasse universitarie: come ha sottolineato il Ministro, cancellare le tasse universitarie non è una opzione sostenibile dal punto di vista finanziario.

Va inoltre detto che l’aumento della no tax area potrebbe non raggiungere tutti coloro che in questo momento sono in difficoltà. Per esempio, una famiglia al di sopra della no tax area potrebbe aver subito una forte riduzione della sua liquidità, comportando una minore propensione verso un percorso universitario.

La proposta che facciamo è la seguente: congelare le tasse universitarie fino al 2021. Per tutto il primo semestre (la cosiddetta “Fase 3”: da settembre a gennaio) gli studenti non dovranno pagare nulla. L’ammontare sarebbe poi recuperato nel corso dei semestri successivi, diluito nelle varie scadenze.

Si tratterebbe di una sorta di prestito a tasso zero, che faciliterebbe l’iscrizione per chi si trova in questo momento senza disponibilità economica e ridurrebbe l’incentivo all’abbandono per chi invece è già iscritto.

Secondo calcoli di Tortuga basati su dati del Miur l’ordine di grandezza di questo congelamento sarebbe di circa 1,2 miliardi di euro. Un “semestre bianco” ci sembra una (la?) risposta migliore di una cancellazione (o una espansione della no tax area) anche alla luce del fatto che il 70 per cento degli studenti universitari paga già meno di 2.000€ all’anno in tasse.

In secondo luogo, è fondamentale sostenere i fuorisede. Secondo la recente indagine Eurostudent, le tasse universitarie non sono la principale spesa dei fuorisede italiani: ammontano soltanto al 16% della spesa mensile.

Al primo posto si trova invece la spesa per l’alloggio (36 per cento), seguita dal vitto (19 per cento). Dal punto di vista economico è importante dunque dare certezza a questi studenti (che sono circa un quarto del totale) non solo sul piano delle tasse universitarie, ma anche dal punto di vista abitativo.

Per esempio, ampliando le risorse messe a disposizione per le borse di studio o per i posti letto nelle residenze universitarie e nei collegi (politiche che non possono essere gestite unicamente dallo stato centrale, ma necessitano anche dell’operato spedito di regioni e comuni). Non è un caso che, sempre analizzando i dati del Miur relativi allo scorso anno accademico, 107mila delle 228mila borse di studio erogate siano andate a studenti fuorisede.

Il dato grave preoccupante è che soltanto 44mila delle 98mila domande di alloggio sono state soddisfatte. I fuorisede vanno quindi sostenuti, auspicando che la mobilità all’interno del paese riprenda in maniera regolare durante l’inizio dell’anno accademico.

Mancano tre mesi alla ripresa delle attività universitarie, ma questo non vuol dire che il problema sia lontano. Dobbiamo tenere alta la guardia: un percorso universitario, specialmente se agli inizi, è qualcosa che viene programmato con anticipo dagli studenti. Per risolvere i problemi di domani serve quindi agire oggi stesso.

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