Articolo pubblicato su La Stampa

Lo studio del think-tank Tortuga: di fronte al gran numero di persone che cercano una via per l’Europa gli addetti ai lavori chiedono di aprire i canali di ingresso regolare. Ecco i motivi per cui pensano che questa sia una soluzione

Sono passate tre settimane dall’entrata in vigore del decreto sicurezza bis, che ha già causato un primo caso mediatico, sull’approdo a Lampedusa della SeaWatch 3. Il decreto è però solo l’ultimo esempio di un trend di inasprimento della legislazione sull’immigrazione iniziato nel 2002 con la legge Bossi-Fini e continuato nel 2008 con il pacchetto sicurezza e i primi accordi con la Libia per il trattenimento dei migranti nei centri di detenzione libici. Da anni, tuttavia, la proposta più comune tra gli addetti ai lavori in ambito migratorio si concentra altrove: ridurre le partenze irregolari, riaprendo i canali legali di immigrazione.

L’esodo che non c’è
Molto è già stato scritto riguardo al carattere strutturale delle migrazioni dall’Africa, tra le cui cause principali troviamo la crescita demografica e i cambiamenti climatici. Servono quindi risposte politiche di medio-lungo termine. Tuttavia, è bene chiarire che il timore di un aumento esponenziale delle migrazioni dall’Africa verso l’Europa non trova riscontro nei dati. Il rapporto 2019 della Mo Ibrahim Foundation, “Africa’s Youth: Jobs or Migration?”, mostra infatti come i migranti di origine africana siano solo il 14,1% del totale dei migranti nel mondo nel 2017, rispetto al 23,7% di origine europea. Inoltre, il 70% degli emigranti africani rimane all’interno del continente e solo 1 su 4 sceglie l’Europa come meta di arrivo. Tra questi, il profilo più comune è quello di giovani, sia uomini che donne, mediamente istruiti (circa la metà ha un titolo secondario o post-secondario) e in cerca di migliori opportunità lavorative.Nel rapporto, le migrazioni sono classificate secondo il binomio “per aspirazione” e “per disperazione”. I primi rappresentano l’80% circa dei flussi africani, e si spostano per motivi di lavoro e studio, ricongiungimento familiare e residenza elettiva. I migranti “per disperazione” emigrano invece per sopravvivenza: in fuga da guerre e terrorismo, da persecuzioni e da carestie, ma anche a causa dei cambiamenti climatici, e rappresentano il 20% del totale. La dicotomia fra rifugiati e migranti economici non sembra quindi in grado di cogliere la distinzione e le sfumature di motivazioni. I due termini si prestano, inoltre, a facile strumentalizzazione, ponendo l’accento su ciò che si aspetta all’arrivo, rifugio o una migliore situazione economica, anziché sulla situazione di partenza.

Ai dati di Mo Ibrahim si aggiungono quelli di Afrobarometer, secondo cui poco più di 1 persona su 3 nel continente ha considerato di emigrare. Di questi, solo il 27% (circa 1 su 4) pensa all’Europa come potenziale meta di migrazione, mentre il 36% dichiara di voler restare nel continente. Anche nell’ottica di un aumento della mobilità africana, le stime delle Nazioni Unite non supportano l’aspettativa di un aumento esponenziale dei flussi verso l’Europa, contrariamente a quanto spesso suggerito nel dibattito pubblico italiano ed europeo. L’esodo africano verso l’Europa quindi, semplicemente non c’è, e non ci sarà.

Chi arriva in Italia
In Italia, a fine 2018 secondo l’Istat, sono presenti 5.144.440 stranieri regolari, che corrispondono all’8,5% della popolazione italiana. Di questi, quasi il 40% è di origine rumena, albanese o marocchina, le tre cittadinanze più numerose, mentre il 19% viene da un altro paese dell’Unione Europea.

I migranti di origine sub-sahariana (in blu chiaro) rappresentano invece 8,6% degli stranieri e lo 0,7% della popolazione totale residente in Italia. I cinque paesi sub-sahariani con una maggiore presenza in Italia sono Senegal, Nigeria, Ghana, Costa d’Avorio e Burkina Faso, secondo i dati Eurostat. Situati tutti in Africa Occidentale, questi paesi rappresentano l’origine del 60% delle persone provenienti dall’Africa Sub-sahariana e, ad eccezione del Burkina Faso, sono tutti sede di un’ambasciata italiana. Questo è un dettaglio rilevante per l’analisi degli ingressi, come spiegheremo in seguito. Come si può osservare dalla figura 2, a partire dal biennio 2011-2012 si è assistito a un’inversione di tendenza tra la quota di richieste di asilo e gli ingressi per altre ragioni. I visti di lavoro quasi si sono azzerati, da 28.659 a 332, mentre i visti di studio sono rimasti costanti, a livelli molto bassi (in media 1.440 l’anno), così come i ricongiungimenti familiari.

Questo dato è difficilmente spiegato dal solo aumento della pressione migratoria: ci si aspetterebbe infatti, in questo caso, un aumento tout court degli ingressi, e non solo degli ingressi di richiedenti asilo. Il dato suggerisce invece un travaso dagli arrivi con visti di lavoro alle richieste di asilo. I dati Mo Ibrahim sopracitati sottolineano infatti che solo 1 cittadino africano su 5 si muove per sopravvivenza, con motivi riconducibili allo status di rifugiato.

La differenza tra i due tipi di ingressi non è solo burocratica. Dal momento che non è prevista, ad oggi, la possibilità fare richiesta di asilo o protezione umanitaria presso le ambasciate straniere nel paese di origine, chi vuole richiedere l’asilo in Europa è costretto a intraprendere il viaggio nel deserto del Sahara e del Mediterraneo. Affidarsi ai trafficanti implica vivere l’esperienza traumatica della tratta, più di un anno di percorrenza e costi intorno ai 4000€. L’ingresso con visto consisterebbe invece in meno di 24 ore di viaggio via aereo e una spesa al massimo di un paio di migliaia di euro.  Se esistesse una via legale, sicura e meno costosa per arrivare in Europa, perché allora pagare più del doppio per rischiare di morire in mare o nel deserto?

Ingressi irregolari: gli aeroporti sono chiusi da anni
La via legale è pressoché chiusa da anni. Difatti, se i rilasci dei visti diminuiscono, non è per un possibile calo delle domande. Secondo i dati del Ministero degli Esteri le richieste di visto sono aumentate di un terzo, passando da 82 mila a 106 mila, ma il tasso di rifiuto delle domande da paesi sub-sahariani è più che raddoppiato, passando dal 10% del 2010 al 22,5% del 2017, anche durante gli anni di maggiore pressione migratoria (2015 e 2016). L’aumento del tasso di rifiuto è ancora più pronunciato per le ambasciate italiane in Africa occidentale, cioè la regione di più frequente provenienza dei migranti che giungono in Italia: i rifiuti sono triplicati in Costa d’Avorio e quadruplicati in Nigeria.

Inoltre, i dati presentati devono essere considerati stime al ribasso del tasso di rifiuto, in quanto le ambasciate italiane in Senegal e Costa d’Avorio coprono un territorio molto vasto che includeva fino al 2017 altri 5 paesi per il Senegal e 4 per la Costa d’Avorio. È quindi ragionevole pensare che esista anche un tasso implicito di rifiuto, dovuto alla difficoltà e al costo di accedere al servizio dell’ambasciata. Sono difatti solo 4 le ambasciate e 3 i consolati generali (enti abilitati al rilascio di visti di ingresso) per un territorio, quello dell’ECOWAS (Africa occidentale esclusa la Mauritania), che supera di 500 milioni di km2 la superficie dell’Unione Europea e con una popolazione di 350 milioni di abitanti. Esemplare è il caso della Nigeria: a fronte di 25mila richieste di asilo nel 2017, i visti richiesti presso l’ambasciata della capitale, Abuja, sono passati da 28.500 a 14.400 tra il 2016 ed il 2017. Ciononostante, il tasso di rifiuto dei visti è aumentato di 10 punti percentuali, raggiungendo quota 63,2%.

Una crisi auto-indotta
Il forte aumento degli ingressi per motivi umanitari sembra dunque essere spiegato, almeno in parte, dal crollo degli arrivi con altri visti e dall’aumento del tasso di dinieghi. Ecco perché è necessario ri-aprire i canali legali di migrazione, per evitare i viaggi della morte in mano ai trafficanti e rendere legale, sicuro e controllato il viaggio.

Le proporzioni di migranti “per disperazione” (20%) e “per aspirazione” (80%) non rispecchiano i dati sugli ingressi come richiedenti asilo (90%) e con altri visti (10%). La chiusura delle vie legali – come i visti di lavoro – per raggiungere l’Europa spinge migliaia di persone verso l’immigrazione irregolare, e in mano ai trafficanti. Questo rende molto costoso e pericoloso il viaggio dei migranti africani diretti in Europa e complica enormemente la gestione degli ingressi da parte dei paesi europei.

Si crea così una percezione di crisi migratoria, che però non trova riscontro nei volumi ed è invece per gran parte auto-indotta a causa della chiusura delle vie legali. L’Europa si sta legando le mani da sola sull’immigrazione, lasciando ai trafficanti una migrazione che potrebbe essere molto meno problematica sia per i suoi cittadini, sia per i cittadini africani. Quando si sveglierà dal sonno dell’ “emergenza migratoria”?

Qui una serie di grafici

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