Articolo pubblicato su Econopoly – Il Sole24Ore

Nel 2016, l’economia non osservata valeva circa 210 miliardi di euro, pari al 12,4 percento del Pil: una grossa fetta della produzione italiana è non osservata, non dichiarata e non regolamentare. In termini di individui, i lavoratori irregolari ammontavano invece a 3 milioni e 701 mila, vale a dire un tasso di irregolarità del 15,6%, una percentuale molto alta.

L’economia informale, o non osservata, comprende diverse categorie, dal lavoro non dichiarato, all’evasione delle tasse e alla sotto-dichiarazione dei proventi. L’economia sommersa non si limita dunque alle attività della criminalità organizzata e misurarla – e compararla tra contesti diversi – non è semplice. Tuttavia tutti gli istituti statistici europei concordano nell’affermare che l’Italia ha una delle economie sommerse più rilevanti di tutte le economie occidentali (due volte più grande di quelle dei principali partner europei: la dimensione dell’economia sommersa nel 2017 era di 12,9% in Italia mentre invece era del 6,8% in Germania e dell’8,3% in Francia.

Quali sono le conseguenze

L’esistenza dell’economia informale ha due principali conseguenze sull’economia, entrambe molto gravi.  Prima di tutto, per lo stato l’economia sommersa comporta minori entrate fiscali: la Cgia di Mestre ha stimato che nel 2014 l’economia sommersa ha sottratto alle casse statali circa 37 miliardi di euro di tasse e contributi. Minori entrate che comportano inferiori livelli di servizi, maggiore tassazione per chi paga regolarmente e quindi una minore crescita dell’economia nel breve e medio periodo. In secondo luogo, l’economia informale coinvolge ovviamente lavoratori e datori di lavoro. In questo senso, è necessario introdurre un distinguo tra la cosiddetta grey economy e il lavoro nero vero e proprio. La prima rappresenta fenomeni come l’evasione fiscale e la mancata completa dichiarazione dei redditi, attività che comportano un arricchimento di tutti i soggetti coinvolti. Mentre, il lavoro nero comporta spesso una differenza delle condizioni tra chi viene sfruttato e chi sfrutta. I lavoratori irregolari infatti non hanno alcun diritto: né una pensione adeguata, né un limite di orario e né un aggiustamento del salario alla produttività o all’inflazione. Inoltre, questi lavoratori tendono a guadagnare un salario orario decisamente inferiore ai lavoratori in regola. A questo proposito, secondo uno studio dell’Istat un quinto del lavoro part-time in Italia rientrerebbe in fenomeni di lavoro nero sotto-retribuito. Le persone che accettano questi tipi di rapporti di lavoro spesso non hanno altra scelta, mentre i datori di lavoro sono spinti verso questo tipo di rapporti per motivi economici, amministrativi (maggiore flessibilità e semplicità) o culturali, in particolare in alcune regioni del sud Italia, in cui l’economia sommersa è tollerata perché considerata uno strumento di mutuo sostegno tra il datore di lavoro e il lavoratore.

Di cosa parliamo

L’economia informale non è ugualmente presente in tutta la struttura economica. Secondo i dati dell’Istat, più del 75% degli occupati irregolari si concentra nel settore terziario, quello dei servizi, come osservabile nella figura 1.

Figura 1 – rilevanza in termini di occupati irregolari per settore (2016)


Se nel settore primario il sommerso è costituito esclusivamente dall’occupazione non regolare, nel terziario il ruolo preponderante è della sotto-dichiarazione. In generale, questa componente pesa per il 45,5% di tutto il valore aggiunto dell’economia sommersa. La restante parte è attribuibile per il 37% al lavoro irregolare e per l’8,6% alle attività illegali (il restante 8,8% viene da una categoria molto eterogenea di irregolarità come i fitti non dichiarati).

Per quanto riguarda la distribuzione regionale del lavoro nero e dell’economia occulta, anche qui notiamo che il fenomeno non è distribuito in modo uniforme.

Figura 2 – distribuzione tasso irregolarità degli occupati (2016)

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Fonte: rielaborazione dati Istat

Nota: per la mappa a sinistra, le zone più scure corrispondono a regioni con maggiore tasso di irregolarità, le zone più chiare a regioni con tassi minori;

Come è possibile notare dalla figura 2, è possibile dividere la penisola in tre macro-regioni: nord, sud e centro. Il gruppo blu è composto da regioni in cui osserviamo un basso tasso di irregolarità circondate da regioni in cui vi è un basso tasso di irregolarità. Il contrario invece è vero per il gruppo rosso. Il gruppo grigio è composto da regioni in cui non abbiamo né la prima situazione né la seconda. Inoltre da alcune analisi statistiche risulta che la dimensione spaziale è fondamentale per spiegare le differenze regionali della pervasività dell’economia sommersa. Ancora più interessante risulta la dinamica temporale, che mostra una tendenza alla convergenza, non tra le macro-regioni italiane, ma al loro interno.

Figura 3 – Serie storiche macroregioni sul tasso di irregolarità degli occupati

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Fonte: rielaborazione dati Istat

Se infatti la distanza tra sud, nord e centro è rimasta pressoché costante dal 2000 (figura 3), le regioni italiane tendono ad assomigliarsi tra loro nella presenza di irregolarità all’interno degli insiemi macro. Questo fenomeno in economia è definito club convergence. Come è possibile notare dalla figura, la regione del Sud Italia con il maggior tasso di irregolarità degli occupati (nel 2000) (Campania) sta convergendo nel tempo a quello del suo gruppo. Parallelamente la regione del Nord con il minor tasso di irregolarità degli occupati (sempre nel 2000) (Provincia autonoma di Trento) sta convergendo a quello del suo gruppo. Il discorso è leggermente differente per il centro Italia (figura 3): le regioni più vicine geograficamente al nord (Toscana e Marche) stanno convergendo ai livelli settentrionali mentre le regioni più vicine al sud (Lazio) si stanno avvicinando ai dati del Meridione.

A livello nazionale non siamo quindi in realtà di fronte a un fenomeno di convergenza. La ragione di ciò è nelle differenze strutturali nella composizione dell’economia sommersa nel centro-nord e centro-sud italiano. Nel nord del paese è composta principalmente da fenomeni di sotto-dichiarazione dei proventi e sovrastima dei costi di produzione, mentre al sud le componenti principali sono il lavoro irregolare, la sotto-dichiarazione dei redditi e la dichiarazione di disabilità fasulle. Così, nel sud Italia è diffuso prevalentemente ciò che viene chiamato il black labor mentre invece nel nord del paese è maggiormente presente il grey employment. Una eterogeneità che complica la situazione: una sola policy nazionale, viste le differenze strutturali, sarebbe inefficace per rispondere adeguatamente al problema. Per questo motivo potrebbe risultare più appropriato introdurre politiche differenti per macro-regioni.

Da dove cominciare per risolvere il problema

Oggi per contrastare il lavoro irregolare nel nostro paese sono possibili quattro soluzioni, già implementate:

  • Sanzioni, che possono essere economiche o possono comportare la sospensione dell’attività;
  • Sanzioni civili, utilizzate in caso di evasione o pagamenti incorretti dei contributi sociali;
  • Sanzioni penali, regolate dal codice penale;
  • Attività di promozione e prevenzione portate avanti dagli uffici del lavoro territoriali.

Ma siamo sicuri che eliminare del tutto l’economia sommersa porti a benefici per l’attività economica e per la vita delle persone? In realtà, nei paesi in via di sviluppo ridurre il lavoro nero potrebbe avere conseguenze negative sull’economia del paese per via della riduzione dell’attività economica. Ciò potrebbe essere (ahinoi) realistico anche nel sud Italia. È infatti vero che l’economia sommersa e il lavoro irregolare arrecano importanti danni alle casse statali ma, allo stesso tempo, le attività irregolari hanno mitigato per alcuni cittadini gli effetti negativi della grande recessione. Tutto ciò non per giustificare, né tanto meno difendere l’irregolarità – che comporta perdite di diritti e concorrenza sleale nei confronti di chi rispetta le regole – ma per essere realisti. Possiamo immaginare l’economia informale come una safety net per questa porzione povera della popolazione italiana. Il costo del lavoro irregolare è infatti decisamente inferiore rispetto a quello regolare, e proprio grazie a questo risparmio i datori di lavoro possono mantenere occupati i lavoratori (in momenti di contrazione dell’attività economica) senza far esplodere la disoccupazione.

Proprio per questa ragione è necessario accompagnare misure come quelle elencate per combattere il lavoro nero, a politiche che riducano il costo del lavoro e/o la rigidità del mercato, evitando che il contrasto al settore irregolare provochi una contrazione dell’economia e ulteriore disoccupazione. Politiche come queste potrebbero allo stesso tempo abbattere il costo del lavoro regolare, riducendo gli incentivi per i datori di lavoro a offrire occupazioni non in regola. L’insieme delle due policy – contrasto e riduzione del costo del lavoro – permetterebbe quindi, da un lato di ridurre l’incidenza dell’economia sommersa, dall’altro di compensare i costi del contrasto all’economia sommersa. Per non cadere dalla padella, il lavoro nero, alla brace, la disoccupazione.

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