Articolo pubblicato per Linkiesta

Il nostro Paese avrebbe bisogno di sviluppare progetti che connettano università e imprese, di proteggere i risultati dei suoi studi e di incentivare i professori a pubblicare i loro studi a beneficio dell’ateneo di riferimento

Con l’imminente arrivo dei fondi del NextGenerationEu e la contestuale stesura del Piano nazionale di ripresa e resilienza si è tornati a parlare di alcuni problemi irrisolti dell’economia italiana, in particolare per quanto riguarda ricerca e innovazione.

Secondo l’Istat nel 2018 la spesa complessiva in ricerca e sviluppo è stata di 25,2 miliardi, pari al 1,43% del Prodotto interno lordo nazionale. Di questi 16,4 miliardi vengono spesi da imprese e istituti privati, 5,7 dalle Università e 3,1 da altre istituzioni pubbliche. Il dato italiano è inferiore a quello dei principali Paesi europei. La Francia spende 53,1 miliardi ovvero il 2,1% del Pil, la Germania il 3,2%, Danimarca 2,9% e Svezia 3,1% (fonti Eurostat PIL e R&D).

Queste differenze di spesa sono dovute alla maggiore propensione delle aziende estere a spendere in sviluppo sperimentale per innovare, ma anche dalla differenza di spesa per la ricerca vera e propria sia “di base” che quella applicata, come spiegato nel cosiddetto Piano Amaldi. L’Italia spende infatti lo 0,5% del Pil in ricerca contro lo 0,8% della Francia e l’1% della Germania.

Quanto descritto è un problema poiché il legame tra ricerca e capacità innovativa del sistema produttivo è da tempo riconosciuto dagli economisti (Acs, Audretsch & Feldman, 1992) e l’Italia avrebbe urgente bisogno di maggiore innovazione. Il nostro Paese è stato infatti classificato come moderate innovator nello score-board della Commissione Europea avendo un indice di innovazione al di sotto della media europea.

Tuttavia, anche aumentando i fondi per la ricerca, il passaggio da ricerca di base applicata a innovazione può essere più o meno veloce ed efficace.

Adottare giuste politiche complementari di incentivo al trasferimento tecnologico renderebbe più immediato l’effetto di una maggiore spesa in ricerca sul sistema produttivo. Due strumenti fondamentali e interconnessi che fanno da ponte tra ricerca di base in università e innovazione sono i brevetti universitari e gli spin-off accademici.

I brevetti in università e istituti di ricerca
Negli Stati Uniti, le università brevettano già a partire dal 1980 grazie al Bayh-Dole Act, mentre in Europa il fenomeno si è sviluppato solo in un secondo momento. Anche se, come spiegato in Foray & Lissoni (2010), non ci sono conferme univoche sul legame empirico tra brevetti e trasferimento tecnologico.

Da un lato, il Bayh-Dole Act ha aiutato la commercializzazione della ricerca di base, anche spingendo grandi università private a iniziare a brevettare; dall’altro ha incentivato alcune università a brevettare anche ricerche di limitata importanza, con un conseguente declino nella qualità dei brevetti.

Negli ultimi decenni, i brevetti universitari sono aumentati a livello mondiale, ma con forti disparità tra Paesi. Gli Stati Uniti detengono ancora il 68% dei brevetti universitari, mentre l’Unione europea circa il 22%, principalmente concentrati nel Regno Unito, Germania, Francia e Italia.

Tuttavia, in Italia si registra un netto aumento di brevetti universitari, diventati 604 nel 2018. Un altro aspetto da considerare è la proprietà della tecnologia brevettata: in Italia è ancora presente il cosiddetto Professor’s Privilege, secondo cui i risultati della ricerca di base in ambito accademico sono proprietà intellettuale dei professori che li hanno sviluppati e non degli enti di ricerca che ne hanno sostenuto i costi di sviluppo.

Inoltre, siccome gli schemi di avanzamento di carriera dei professori universitari sono legati alle pubblicazioni, potrebbero esserci disincentivi a brevettare invenzioni in favore della pubblicazione di articoli accademici. Proprio a causa di queste limitazioni, il Professor’s Privilege è stato abolito nella quasi totalità dei Paesi dell’Unione e negli Stati Uniti.

Gli spin-off accademici e gli Uffici di Trasferimento Tecnologico
Gli spin-off accademici sono società finalizzate all’utilizzazione economica dei risultati della ricerca universitaria, a cui le università possono contribuire in vari modi. Secondo Di Gregorio e Shane (2003), due fattori determinanti per la buona riuscita di spin-off accademici sono la qualità dei professori e il contributo diretto delle università sotto forma di capitale, preferibile al meccanismo di licenza delle tecnologie brevettate.

Inoltre, la letteratura mostra anche come le università con maggiore esperienza nella creazione di spin-off e un vasto network di contatti portino più facilmente alla formazione di nuovi spin-off dalle stesse. Questo si vede anche dai dati riferiti al nostro Paese, in quanto relativamente poche università hanno un elevato numero di spin-off all’attivo. Tuttavia, un dato positivo è la diffusione di spin-off sull’intero territorio nazionale, seppur in modo non uniforme.

Un altro importante ruolo è quello degli uffici per il trasferimento tecnologico (Tto), che sono stati attivati nelle università italiane solamente a partire dal 2002 esattamente per perseguire questi obiettivi: maggiore dialogo con le imprese, produrre brevetti e imprese spin-off aziendali.

A oggi, numerose università italiane hanno un Tto che sostiene la creazione di start-up, come ad esempio PoliHub del Politecnico di Milano. Un’altra iniziativa accademica in questo senso è Netval, un’associazione di 63 università e 13 Enti Pubblici di Ricerca con la missione di «valorizzare la ricerca universitaria nei confronti del sistema economico ed imprenditoriale», attraverso incontri e iniziative formative che mettano in contatto i vari Tto.

Cosa fare
A livello nazionale l’Agenzia Nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea) ha un’Unità di Trasferimento Tecnologico, con il compito di proteggere i risultati della ricerca, valorizzandola attraverso vari meccanismi, tra cui gli spin-off.

Nel 2015, il Mise ha lanciato un programma di finanziamento per questi uffici, rendendo possibile la loro espansione in termini di personale. Uno studio preliminare trova una correlazione tra il numero di brevetti e la partecipazione al programma ma nessuna correlazione tra il numero di brevetti e il numero di spin-off aziendali.

Sempre la stessa ricerca segnala come il nuovo personale fosse in possesso di PhD Stem ma senza competenze imprenditoriali. Questo suggerisce che potrebbe essere efficace rafforzare ulteriormente i Tto con particolare attenzione a personale esperto in start-up. Nel 2018 lo stesso Mise ha lanciato il Bando UTT, che prevede 5,8 milioni di euro per il rafforzamento degli attuali Utt e 1,2 milioni per il finanziamento di progetti per intensificare e migliorare i processi di trasferimento tecnologico dalle Università alle imprese.

Tuttavia, il numero di addetti ai Tto accademici è ancora troppo basso rispetto ad altri Paesi: se nella sola università di Leuven in Belgio lavorano 41 persone nell’ambito del trasferimento tecnologico, in tutta Italia nel 2019 se ne contavano solo 225. Secondo il Rapporto Netval 2012, sarebbero necessarie almeno quattro unità di personale per Tto. Nel 2010, nelle cinque migliori università in termini di trasferimento tecnologico si contavano addirittura 10 unità di personale per Tto, e potrebbe essere uno dei fattori che contribuiscono al loro successo.

In termini di policy, quindi sarebbe necessario investire nell’aumento di personale universitario coinvolto negli Utt, per migliorare ed espandere il trasferimento tecnologico attraverso la produzione di brevetti. Sempre per questo scopo, si potrebbe abolire il Professor’s Privilege, incentivando i professori a brevettare anziché pubblicare i risultati della ricerca, a beneficio dell’ateneo di riferimento.

La produzione di spin-off per la quale il contributo dei Utt è meno chiaro dovrebbe essere supportata da regolamenti interni delle singole università adeguati (Muscio et al, 2016): per esempio ponendo regole chiare per ridurre al minimo conflitti di interesse o nel definire le quote di proprietà dell’impresa spin-off.

Nonostante il livello di produzione intellettuale e di attività imprenditoriale innovativa rimangano fortemente dettate dalla cultura di un Paese e dall’iniziativa personale, ciò non deve far pensare che la ricerca finanziata dallo Stato non possa contribuire.

*Andrea Chiantello – ha lavorato a DG competition della Commissione Europea, ed è ora analyst per una consulenza economica. È inoltre senior fellow di Tortuga tramite il quale pubblica questo contributo.

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