Articolo pubblicato per Business Insider

Un musicista esordiente può esibirsi in una “gig” – ossia una breve performance – presso un locale, con la possibilità di suonare di nuovo in caso di successo. Analogamente, le mansioni alla base della gig economy sono tipicamente brevi e occasionali, non regolate da contratti subordinati, e condizionate a una buona reputazione.

La gig economy è caratterizzata dall’intermediazione tramite piattaforme digitali che ottimizzano domanda e offerta di lavoro mediante algoritmi, con alcune caratteristiche principali: la capacità di riunire utenti, di monetizzare i dati, e di generare effetti di scala e di rete. Ci focalizziamo qui su una tipologia specifica di gig economy, quella del lavoro su richiesta tramite app, in cui la piattaforma facilita l’incontro tra domanda e offerta, ma il lavoro è basato sul luogo, come nel caso delle consegne di cibo a domicilio.

La gig economy è cresciuta in modo esponenziale negli ultimi anni. È difficile stimare il numero di lavoratori, poiché le aziende sono riluttanti a divulgare i dati e i lavoratori possono essere registrati su più piattaforme contemporaneamente. Tuttavia, in Italia, l’Inps suggerisce che nel 2017 fra le 590 e le 750 mila persone, in media circa l’1,59% della popolazione in età attiva (18-64 anni), erano coinvolte in lavori in questo settore.  I riders, spesso oggetto del dibattito pubblico, sono solo il 12% dei lavoratori gig: poco si sa delle condizioni contrattuali e di contribuzione sociale del restante 88%.   

La gig economy riflette un desiderio di flessibilità delle aziende e dei lavoratori, come osservato da Giorgiantonio e Rizzica. Flessibilità che si manifesta in differenti categorie e modalità. Per alcuni la gig economy può offrire l’opportunità di uscire di casa o di incontrare nuove persone, ad altri permette di pagare una serata speciale o di comprare un sacchetto di generi alimentari in più, agli studenti consente di avere una fonte di guadagno durante gli studi. Il grado di soddisfazione dei rider è infatti in media positivo. L’Inps evidenzia anche che l’utilizzo di piattaforme digitali può contribuire al superamento di forme di lavoro in nero, garantendo maggiori tutele al lavoratore. In questo contesto, l’estensione dello status di dipendente e l’inquadramento in vecchi sistemi di categoria potrebbero risultare controproducenti.

In questo quadro complesso, caratterizzato da forme di lavoro a cavallo fra il lavoro autonomo e quello dipendente, risulta difficile adottare un approccio normativo o contrattuale univoco sullo schema (orario o a cottimo) e sul minimo retributivo, se non garantendo tutele base trasversalmente a tutti lavoratori, senza differenze tra lavoratori autonomi o subordinati.

Inoltre, ogni regolamentazione dovrebbe avere l’obiettivo di preservare la perfetta concorrenza tutelando la parte debole (il lavoratore).  Tuttavia, le piattaforme operano in modo molto diverso tra loro: alcune aumentano il potere contrattuale dei lavoratori, ad esempio facilitando il cambio di datore di lavoro; altre invece permettono a pochi datori di lavoro di avere accesso a un gran numero di lavoratori poco qualificati, permettendo loro di offrire salari più bassi. Nonostante queste diversità, per i lavoratori esistono sicuramente alcuni rischi. Per esempio, soprattutto nel delivery, la concorrenza tra riders in un contesto di paga a consegna potrebbe favorire comportamenti in contrasto con la sicurezza sul lavoro.

Un altro fattore importante per coloro che fanno parte della gig economy a tempo pieno (e quindi non temporaneamente, per esempio durante gli studi, oppure per ottenere una seconda fonte di reddito) è  la difficoltà di sviluppare nuove competenze, limitando la possibilità di far avanzare la propria carriera nel futuro.

Recentemente, sono stati intrapresi sforzi per regolare il settore del delivery, a partire dalla Carta dei diritti sottoscritta dal Comune di Bologna, sindacati e alcune aziende nel 2018. Inoltre, la Commissione europea ha cofinanziato il progetto Don’t Gig Up, che si è tradotto in 13 proposte di policy che spaziano dal garantire maggiore trasparenza sull’operatività delle piattaforme, all’introduzione della presunzione di rapporto di lavoro dipendente. Sempre la Commissione Europea nel 2020 ha proposto una direttiva riguardante il salario minimo, citando i problemi delle forme atipiche di contratto su cui il Parlamento europeo ha inoltre chiesto maggiori statistiche.

Pandemia e gig economy: crescita e formalizzazione? 

La pandemia ha accelerato l’espansione del settore e-commerce, uno dei pochi a crescere quest’anno nel nostro paese, con un aumento da parte degli italiani del 31% degli acquisti online in generale e del 70% di quelli riguardanti prodotti alimentari, secondo l’osservatorio eCommerce b2c. Dai dati Google Trends sulla ricerca delle più note piattaforme di delivery emerge un’impennata in concomitanza delle restrizioni più rigide.

Se da un lato il timore di un aumento della precarietà nel settore, esacerbato dalla pandemia, è giustificato, dall’altro la flessibilità di questa forma di contratti può essere un elemento di vantaggio sia per il datore di lavoro che per alcuni lavoratori, come già spiegato. Tuttavia, la mancanza di tutele significa chiaramente che, in caso di malattia, i lavoratori rischiano di veder scomparire il proprio reddito, non rientrando negli schemi di previdenza sociale e senza un effettivo supporto da parte delle piattaforme, che secondo una analisi del  Fairwork program non hanno implementato nuove forma di tutela in concomitanza con la pandemia.

Allo stesso tempo, la pandemia ha velocizzato il processo di formalizzazione delle piattaforme, seguendo una tendenza iniziata in Italia ad inizio 2020 con la sentenza della Cassazione sul caso FoodoraA settembre è stato firmato il primo Contratto collettivo nazionale del lavoro, che è però stato fortemente criticato dai principali sindacati, in quanto non identifica una retribuzione per le ore di reperibilità ed essenzialmente riconosce la natura autonoma del lavoratore. A febbraio, Just Eat ha annunciato di voler assumere alcuni rider, discostandosi dal contratto collettivo. La regolamentazione è ancora in uno stato embrionale, e le sentenze restituiscono un quadro normativo frammentato – nonostante ciò è sicuramente in atto un momento di analisi e riflessione.

La gig economy dopo il Covid: mappare per conoscere

Quali di questi cambiamenti rimarranno una volta ritornati alla normalità? La crescita della domanda osservata durante la pandemia è destinata a rimanere. Non  solo sono cambiate le preferenze dei consumatori, ma anche le piattaforme stesse possono ora sfruttare effetti di rete maggiori: un’offerta più abbondante e diversificata da parte delle piattaforme permetterà di mantenere i clienti già acquisiti e di raggiungerne di nuovi. Allo stesso tempo, la crescita della domanda e la comparsa nelle diverse città di nuove piattaforme ha aumentato la concorrenza. La maggiore efficienza è senza dubbio un effetto positivo, ma come con l’evoluzione di molti altri mercati digitali, la presenza di economie di scala in certe condizioni può essere usata da aziende già operanti nel mercato per impedire la competizione di potenziali rivali ancora più efficienti: le autorità garanti della concorrenza avranno pertanto un ruolo sempre più importante nell’assicurare la competizione a beneficio dei consumatori. Allo stesso tempo, il numero di potenziali rider potrebbe rimanere alto nel lungo termine, anche a causa di un’elevata disoccupazione.

Se la gig economy è davvero destinata ad assumere un ruolo sempre più preponderante nel mercato italiano, è essenziale lavorare su dati più completi, per una mappatura del fenomeno che consenta di catturarne l’evoluzione e quindi di intervenire in materia di lavoro e di previdenza in modo adeguato. Per esempio, l’attenzione politica si è concentrata quasi esclusivamente sui riders, che però rappresentano una minoranza dei lavoratori nel settore: un approccio basato sui dati, ispirandosi all’Online Labour Index dell’Università di Oxford, permetterebbe di adottare un focus più integrale, senza rischiare di escludere categorie importanti del settore, attraverso un monitoraggio dei progetti e delle attività pubblicate direttamente sulle piattaforme.

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