L’articolo è stato pubblicato per Pandora Rivista

Emergenza Disoccupati

Sebbene la diffusione del Covid-19 sia in primo luogo un’emergenza sanitaria e debba essere considerata come tale, le politiche di lockdown e la chiusura delle attività produttive hanno condotto a un altro tipo di emergenza: quella economica e sociale. L’immagine forse più rappresentativa di una crisi economica, così come nel 2008 o nel 1929, è la lunghissima fila di persone in coda per richiedere il sussidio di disoccupazione. Negli Stati Uniti le domande per questo beneficio al 4 aprile hanno raggiunto i 16 milioni e mezzo, con una crescita di 6-7 milioni per settimana.

Cifre straordinarie, ma anche sottostimate. Così riportano gli economisti Coibion, Gorodnichenko e Weber, che hanno stimato le dinamiche del mercato del lavoro durante l’emergenza Covid-19, utilizzando un sondaggio sulle famiglie americane condotto tra il 2 e il 6 aprile. Secondo i risultati, il rapporto occupazione su popolazione è sceso di otto punti percentuali, più dell’intero declino sofferto durante la Grande Recessione. In termini di posti di lavoro, questa diminuzione corrisponde a circa 20 milioni persone che hanno perso il proprio impiego, un numero ben superiore al già epocale numero di richieste di sussidio. Ciononostante, il tasso di disoccupazione aumenta “solo” di due punti percentuali. Questo ci dà un’altra cattiva notizia: la gran parte delle persone che ha perso lavoro ha smesso di cercarlo. Il fenomeno dei cosiddetti “lavoratori scoraggiati” è tipico dei periodi di crisi economica. Sono persone che hanno interrotto la ricerca di un’occupazione a causa delle scarse opportunità lavorative in circolazione. Gli autori riportano difatti un’ampia diminuzione della partecipazione alla forza lavoro, che comporta ingannevolmente un ridotto innalzamento del tasso di disoccupazione.

E in Italia? Gli unici dati disponibili sono quelli delle Comunicazioni Obbligatorie della regione Veneto. Queste raccolgono tutte le informazioni su assunzioni, cessazioni e trasformazioni dei rapporti lavorativi che i datori di lavoro della regione devono comunicare al sistema informativo dei Servizi per l’impiego. Pur riferendosi ad una sola regione italiana, sono di grande valore per due motivi. In primo luogo, il Veneto è uno dei primi focolai italiani e rimane una delle prime regioni per numero di contagiati; in secondo luogo, con riguardo alle dinamiche occupazionali, il Veneto, insieme alla Lombardia e all’Emilia-Romagna, ospita circa la metà delle posizioni lavorative nette regolari create in Italia in un anno.

I dati riportano il saldo tra assunzioni e cessazioni nel periodo tra il 23 febbraio e il 19 aprile e lo confrontano con il saldo riferito allo stesso periodo dello scorso anno. Mentre nel 2019 il dato è pari a 19.500 unità, nel 2020 questo è negativo, pari a -20.400 unità: una decrescita di circa 40 mila posti di lavoro rispetto all’anno scorso. Come si nota dal grafico, questo crollo è dovuto interamente a una drastica riduzione delle assunzioni, dal momento che le cessazioni sono invece diminuite rispetto al 2019, verosimilmente a causa dei provvedimenti legislativi del decreto Cura Italia. I numeri riflettono una diffusa mancanza di opportunità lavorative: una crisi economica può causare non solo la perdita di un lavoro ma anche, e soprattutto nel nostro Paese, l’impossibilità di trovarne uno.

Inoltre, risulta importante considerare le assunzioni nette per tipologia di contratto. Si evidenzia una diminuzione più severa per i contratti a tempo determinato, con riferimento ai quali le assunzioni al netto delle cessazioni sono diminuite di circa 30 mila unità. Tra questi una perdita significativa è riconducibile ai lavoratori stagionali: non stupisce che sia il settore del turismo a soffrire maggiormente di questa crisi, lasciando indietro circa 20 mila posti di lavoro.

Dunque, i lavoratori che rimangono a casa oggi sono coloro che, con le dinamiche occupazionali dei tempi normali, avrebbero trovato un impiego. Sono i giovani, che devono ancora entrare nel mondo del lavoro, e i dipendenti a tempo determinato e stagionali, che prevedevano di farvi ritorno. Gli strumenti per la disoccupazione presenti in Italia sono adeguati ad aiutarli? Per capirlo è utile fare un breve excursus relativo all’evoluzione negli ultimi anni del sistema di assicurazione contro la disoccupazione in Italia, un tema su cui molto si è fatto, ma di cui poco si è parlato.

Il pre-Fornero

Fino al 2012, il panorama delle politiche passive del lavoro appariva particolarmente frammentato: si distingueva per la presenza di numerose misure, ciascuna con diverse platee di destinatari, requisiti per l’ottenimento e caratteristiche del beneficio erogato.

La principale era l’Indennità di Disoccupazione Ordinaria (IDO), di cui potevano godere i lavoratori dipendenti di tutti i settori, a patto che avessero versato l’equivalente di 1 anno di contributi nei precedenti 2 anni (requisito contributivo), e che ne fossero trascorsi almeno 2 anni dal versamento del primo contributo (requisito assicurativo). Una variante era l’Indennità di Disoccupazione a Requisiti Ridotti (IDRR), pensata per chi difficilmente maturava il requisito contributivo necessario. A questi strumenti se ne aggiungevano altri, destinati a lavoratori di particolari settori (come quello agricolo, edilizio, industriale) o che fossero disoccupati per ragioni specifiche (licenziamenti collettivi, fine della Cassa Integrazione Straordinaria).

Conseguenza inevitabile di tale varietà era un’iniquità di trattamento tra i beneficiari di misure diverse, che come detto prima differivano sia per condizioni di accesso che per la natura dell’indennità erogata. I problemi però riguardavano anche l’esclusione di alcune categorie: da un lato, autonomi, apprendisti e para-subordinati non avevano diritto alle indennità; dall’altro, i requisiti contributivi e assicurativi determinavano di fatto l’esclusione di dei disoccupati alla ricerca di un primo impiego, o al contrario dei disoccupati di lungo periodo. Inoltre, l’erogazione del beneficio era caratterizzata da una scarsa condizionalità, ovvero non era vincolato all’impegno da parte del disoccupato a tornare attivo. In generale, il legame tra politiche passive e attive era troppo debole.

La Riforma Fornero

Lo scenario cambia con la riforma varata dal governo Monti nel 2012, che ha rappresentato il primo e più massiccio tentativo di riordino delle politiche di disoccupazione. L’innovazione principale è stata la sostituzione di IDO e IDRR, gli strumenti fino ad allora più impiegati, con l’Assicurazione per l’Impiego (ASpI) e la Mini-ASpI. A ciò si è sommata l’abolizione di alcuni tra gli altri sussidi ancora in vigore, col proposito di ristabilire un principio di equità tra dipendenti di settori diversi.

Rispetto all’IDO, l’ASpI presentava gli stessi requisiti contributivi e assicurativi. La durata del beneficio però era maggiore, e la variazione dell’importo nel tempo, seppur seguisse un andamento simile, più generosa. La Mini-Aspi, invece, aveva una durata uguale alla metà del numero di settimane di contributi versati nell’ultimo anno, compromesso che bilanciava l’assenza di requisiti assicurativi per l’accesso. Tale innovazione (ricordiamo che il requisito assicurativo era essenziale anche per ottenere l’IDRR), insieme all’inclusione di apprendisti e para-subordinati nella platea di aventi diritto, ha determinato una significativa e positiva estensione di quest’ultima.

Il Jobs Act

Infine, nel 2015 un’ulteriore semplificazione è stata introdotta dalla riforma del mercato del lavoro a opera del governo Renzi. ASpI e Mini-ASpI vengono sostituite dalla Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (NASpI), che diventa così principale la principale indennità di disoccupazione. L’ottenimento è condizionato al versamento di almeno 13 settimane di contributi nei 4 anni precedenti, mentre non è previsto alcun requisito assicurativo. Così come nel caso della Mini-ASpI, la durata è calcolata come la metà delle settimane durante le quali il richiedente ha lavorato. Ciò significa che la NASpI può, potenzialmente, essere erogata per un periodo più lungo rispetto alle politiche che la precedevano: un massimo di 2 anni per un dipendente che sia stato attivo per gli interi 4 anni precedenti. Tuttavia, il risvolto della medaglia è che le settimane di contributi utilizzate per il computo del beneficio non possono essere impiegate per il computo di un successivo beneficio nel caso in cui il lavoratore richiedesse nuovamente il sussidio in un arco di tempo inferiore a 4 anni.

Per riassumere, queste riforme hanno ridotto la vasta costellazione di sussidi a un insieme di poche misure, favorendo il ricorso a una e principale indennità di riferimento (la NASpI). In questo modo, il sistema ha guadagnato in termini di equità e semplicità. Allo stesso tempo, la copertura è aumentata, soprattutto grazie all’inclusione di categorie marginali a opera di Fornero: un rapporto dell’INPS (2016) ha stimato che circa il 97% dei lavoratori subordinati può ricevere la NASpI se in possesso dei requisiti contributivi. Riguardo al suo effettivo utilizzo, invece, Giorgi (2018) calcola che nel 2015 il sussidio è stato ricevuto dal 45% dei disoccupati che rispettavano i parametri richiesti.

Rotte future

La drammatica emergenza economica che seguirà l’emergenza sanitaria ci spinge a ripercorrere le evoluzioni dell’assicurazione contro la disoccupazione ma soprattutto ci impone di riflettere su come migliorarla e come adattarla a questi tempi nuovi. Lo facciamo partendo da una premessa: quando si disegnano le politiche pubbliche, a ogni problema deve corrispondere una soluzione e viceversa. Il ventaglio di strumenti a disposizione in questo momento è ampio: Reddito di Cittadinanza, Cassa Integrazione, Naspi. Ma non vanno confusi tra di loro e non vanno alterati nella loro natura fondamentale, perché ciascuno serve a un preciso scopo e raggiunge una precisa platea di cittadini. Nell’ordine: i poveri, i lavoratori che ancora hanno un contratto di lavoro, i disoccupati. Fatta tale premessa, una proposta per aiutare quest’ultima categoria di cittadini parte dal miglioramento della Naspi dal punto di vista della durata. L’idea è di garantire a tutti coloro che vi hanno accesso un beneficio dalla durata minima di 4 mesi. Sopra i 4 mesi scatterebbe poi il conteggio basato sul numero di settimane di contributi versati (e ciò solo per coloro che hanno a disposizione un numero di mesi contributivi validi superiori agli 8). Rispetto alla situazione attuale quindi, questa sorta di ascensore porterebbe in sostanza a 4 mesi tutti coloro che avrebbe avuto altrimenti diritto a un beneficio dalla durata inferiore. Per i primi 4 mesi l’entità del beneficio rimarrebbe costante al 75% del salario di riferimento e l’inizio del décalage (3% ogni mese) scatterebbe a partire dal quinto mese. Una simile modifica andrebbe ad aiutare i lavoratori con carriere discontinue (tra cui specialmente i lavoratori stagionali) che si sono trovati penalizzati dal passaggio alla Naspi e, in particolare, dal passaggio al sistema di durata variabile del beneficio. Man mano che il tempo passa, infatti, a fronte di un percorso lavorativo fatto di impieghi saltuari, il beneficio a cui il lavoratore ha diritto diventa potenzialmente sempre più corto, perché sempre meno settimane contributive possono venire conteggiate. Questa problematica rischia anche di amplificarsi in un mercato del lavoro che potrebbe ripartire a singhiozzo e in cui non è da escludere la possibilità di nuovi e repentini lockdown. Secondo i numeri forniti dall’INPS nella sua Relazione Annuale 2019, i lavoratori interessati annualmente, ovvero coloro che al momento della richiesta avrebbe avuto diritto a un beneficio di meno di 4 mesi, sarebbero quasi 600 mila, pari a circa un terzo del totale. Questa proporzione però varia grandemente a seconda della categoria dei lavoratori: tra gli apprendisti la percentuale raggiunge il 40% e tra gli stagionali arriva al 65%. Proprio queste categorie infatti sono più esposte e più meritevoli di attenzione da parte dei decisori pubblici, anche alla luce del fatto che i numeri appena ricordati sono destinati ad aumentare significativamente nello scenario post-Covid e che le categorie più fragili saranno anche quelle maggiormente colpite alla crisi.

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