Articolo pubblicato per Informazionesenzafiltro.it

Quali effetti avrebbe l’introduzione del salario minimo sul lavoro irregolare? Su tutti, un aumento delle retribuzioni e una riallocazione dei lavoratori tra il settore formale e quello informale. Ne parliamo in un’analisi basata sugli studi più recenti del fenomeno con i dati della Germania e dei Paesi in via di sviluppo.

Nei precedenti articoli di questa serie abbiamo discusso l’opportunità di implementare il salario minimo in Italia, e le possibili conseguenze di tale introduzione per chi lavora e per le imprese.

In questo contributo analizziamo l’effetto del salario minimo su un’ulteriore componente del mercato del lavoro: i lavoratori e le lavoratrici irregolari e il lavoro sommerso (c.d. “in nero” o black economy). Come più volte evidenziato nella letteratura economica, il cambiamento dei salari per gli occupati regolari potrebbe infatti avere un impatto anche sulle condizioni di lavoro al di fuori della legalità.

I lavoratori irregolari in Italia sono più di tre milioni e mezzo

Ma innanzitutto: chi sono, dove sono, di che cosa di occupano i lavoratori in nero in Italia?

Secondo le più recenti stime Istat, nel 2019 c’erano in Italia 3.569.000 lavoratori in nero a tempo pieno, pari a circa il 14,9% del totale. Concentrati principalmente nei settori dei servizi alla persona (46,4% sul totale degli occupati nel comparto), dell’agricoltura (18,8%), delle costruzioni (16,3%) e del commercio, trasporti, alloggio e ristorazione (15,3%), il loro lavoro pesa nel complesso il 4,3% del PIL nazionale. Una componente che, seppure in calo negli ultimi due anni, rimane non trascurabile, anche perché questi dati non rilevano ancora l’impatto della pandemia.

Una precedente analisi di Tortuga sui dati dell’European Social Survey ha individuato ulteriori caratteristiche individuali che sono associate con maggior probabilità a un lavoratore in nero in Italia: giovanepoco istruito e poveroinsoddisfatto e sfiduciato. La probabilità di essere un lavoratore in nero è infatti maggiore tra i giovani (18-30 anni) rispetto alle persone di età compresa tra i 40 e i 50 anni, per poi risalire nella fascia degli anziani. Inoltre, la probabilità è più alta tanto sono più bassi il livello di istruzione e il reddito famigliare.

Altre caratteristiche spesso trascurate associate con una più alta probabilità di lavorare in nero sono la maggiore sfiducia per il sistema istituzionale (ad esempio nel Parlamento, nel Governo, nei partiti politici) e un più alto grado di insoddisfazione per la propria vita. Infine, si osserva che il lavoro in nero è anche correlato con la minore integrazione, con i livelli più alti osservati tra cittadini stranieri non nati in Italia.

Salario minimo e retribuzioni dei lavoratori in nero: lo studio sui Paesi in via di sviluppo

Come già accennato sopra, la letteratura economica ha investigato il possibile impatto del salario minimo sul settore informale. I primi studi, risalenti agli anni Ottanta, hanno affrontato la questione da un punto di vista teorico, prevedendo una migrazione dei lavoratori e delle lavoratrici dal settore formale a quello informale e una diminuzione dei salari per chi lavora in quest’ultimo.

Gli studi più aggiornati, invece, dicono l’esatto contrario. La letteratura recente utilizza nuovi metodi empirici per studiare l’impatto dell’introduzione del salario minimo sulla retribuzione media del lavoratore in nero: analizzano dati dai Paesi in via di sviluppo nei quali questa misura è stata introdotta recentemente, e dove il tasso di irregolarità è particolarmente elevato.

La ricerca di Boeri, Garibaldi e Ribeiro, per esempio, mostra come in Brasile l’introduzione del salario minimo abbia portato ad un aumento dei salari anche per i lavoratori in nero. Gli economisti riconducono questo trend a due fattori: il lighthouse effect”, per cui il nuovo livello minimo serve da riferimento anche per i lavoratori nel settore informale – che chiederanno un salario più alto in fase di contrattazione – e la riallocazione dei lavoratori tra settore formale e informale. Mentre il primo canale è stato proposto da diversi studi empirici sul tema, il secondo si basa su un modello teorico elaborato dagli autori. Secondo quest’ultimo, in seguito all’introduzione di un minimo salariale, la produttività media e i conseguenti salari dei lavoratori nel settore informale crescono, poiché lavoratori relativamente più produttivi e qualificati si spostano nel settore informale, mentre lavoratori a bassa produttività si spostano nel settore formale.

Uno studio sul salario minimo in Costa Rica espone simili risultati: in seguito all’innalzamento della retribuzione minima, i salari non sono aumentati solo nei settori interessati, ovvero nell’economia legale, ma anche in quello che viene considerato il settore informale, dove la legislazione viene raramente applicata (piccole imprese rurali, ad esempio).

Infine, un report della Banca Mondiale raccoglie evidenze dai Paesi dell’America Latina per studiare l’impatto del salario minimo sul settore formale e informale che conferma nuovamente l’impatto positivo della misura sui salari dei lavoratori in nero.

Germania, il salario minimo non incide sulla dimensione del lavoro nero

Nell’analizzare gli effetti di una retribuzione minima bisogna pensare non solo ai salari di chi lavora nel settore informale, ma anche alla vera e propria dimensione di quest’ultimo: come accennato sopra, vi è il rischio che l’introduzione di questa misura aumenti il numero di lavoratori e lavoratrici in nero.

Per approfondire questo punto è utile studiare il caso della Germania, che ha introdotto una paga minima di 8,50 euro lordi all’ora nel 2015, e che prevede di aumentare gradualmente il compenso fino al raggiungimento di 12 euro lordi orari entro ottobre 2022. Come avevamo spiegato nel nostro primo articolo, l’introduzione del salario minimo in Germania ha portato a un aumento dei salari per i lavoratori a basso reddito, e un effetto sull’occupazione quasi nullo. Ma qual è stato l’impatto sul lavoro in nero?

Nel 2015, alcune previsioni suggerivano un aumento dei costi delle aziende tedesche, per potersi adeguare al salario minimo, di 7 miliardi di euro, dei quali circa il 20% sarebbero stati evasi, contribuendo a un aumento dell’economia sommersa di 1,5 miliardi di euro (Schneider & Boockmann, 2015). Ciononostante, le stime dell’economia sommersa tedesca mostrano un trend in discesa, passando dal 14,3% del PIL nel 2009 al 8,7% del PIL nel 2022 (Schneider, 2022).

Nel complesso, il salario minimo non ha dunque comportato un consistente aumento dell’economia sommersa, ma nemmeno una sua diminuzione, che è invece da attribuirsi all’andamento positivo dell’economia tedesca. La letteratura scientifica non ha infatti evidenziato una causalità tra implementazione della retribuzione minima e dimensione dell’economia sommersa, e interviste a lavoratori di settori particolarmente toccati dal lavoro nero, come quello edile, non hanno percepito un aumento del lavoro irregolare in seguito all’aumento del compenso (Fuchs et al., 2020).

Come fattori determinanti dello sviluppo del lavoro in nero in Germania vengono invece identificate caratteristiche specifiche di alcuni settori, come basse barriere d’ingresso, subappalti e una forte pressione competitiva in termine di prezzi (Fuchs et al., 2020), e dell’economia, come una crescita economica e una riduzione della disoccupazione (Schneider & Boockmann, 2018).

Infine, un aspetto particolarmente importante è la qualità e quantità di controlli effettuati. Secondo Bosch et al. (2019), il numero di ispezioni sull’applicazione della normativa è costantemente diminuito nel corso degli anni, portando a una possibile sottovalutazione della dimensione del lavoro irregolare. Questo è un punto fondamentale da considerare per l’implementazione del salario minimo anche in Italia, dove spesso l’introduzione di una norma non viene seguita dalla verifica della sua implementazione.

Il salario minimo, tirando le somme: che effetti avrebbe in Italia?

Guardando dunque sia a esperienze a noi più vicine, come quella della Germania, sia alle analisi sui Paesi in via di sviluppo presenti nella letteratura, è evidente che il salario minimo ha un effetto anche sul settore informale e sui lavoratori in nero. In particolare, come ipotizzato anche nell’ultima Relazione del Gruppo di Lavoro sugli Interventi e le Misure di Contrasto alla Povertà in Italia (novembre, 2021), è possibile che la sua introduzione crei un effetto lighthouse anche per i lavoratori irregolari, portando a un aumento del salario in nero senza modificare significativamente il numero di occupati nell’economia sommersa.

Quest’articolo conclude la serie sul salario minimo redatta da Tortuga. Qual è dunque il bilancio complessivo dell’introduzione di questa misura?

Negli articoli precedenti abbiamo visto come il salario minimo potrebbe portare non solo a una riduzione delle diseguaglianze, ma anche a un miglioramento dell’ambiente competitivo nel nostro Paese.

Nel primo articolo abbiamo parlato di come la letteratura scientifica più recente abbia rigettato la teoria che il salario minimo riduca l’occupazione, e di come sia invece un importante strumento per tutelare i lavoratori che non sono coperti dai contratti collettivi e si trovano in una posizione contrattuale più debole.

Nel secondo articolo abbiamo poi mostrato come l’introduzione di una retribuzione minima potrebbe migliorare la competitività del mercato del lavoro. Le nostre analisi mostrano come molte aziende paghino stipendi inferiori al minimo ipotizzato, e come l’impatto di un aumento dei costi del lavoro sarebbe marcato soprattutto per le aziende a bassa produttività, con una spiccata eterogeneità settoriale e territoriale.

Infine, nel terzo articolo abbiamo considerato il fenomeno della povertà da lavoro, per il quale il salario minimo sarebbe solo una delle politiche di sostegno necessarie.

Nonostante gli effetti positivi del salario minimo che abbiamo evidenziato, va sempre ricordato che non si tratta di una bacchetta magica, ma di un ulteriore strumento per agire sull’intero panorama lavorativo italiano, che deve essere supportato da uno studio approfondito delle inefficienze del mercato e dall’implementazione di altri strumenti a supporto di lavoratori e aziende.

Ha collaborato all’articolo: 

Sara Rabino – Nata a Torino nel 1996 e cresciuta ad Asti. Ha conseguito sia la laurea triennale che quella magistrale all’Università Bocconi, con uno scambio all’University College of London. Dopo un periodo di ricerca al centro di ricerca IGIER (Milano) e al CNRS (Parigi) in economia del lavoro e economia della salute, ha iniziato un PhD in Economics all’Università di Zurigo. Senior fellow del think-tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

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