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Il fenomeno dei lavoratori poveri è determinato da salari bassi e instabilità dei contratti e localizzato su generi, età e geografie. L’Italia e l’Europa interpretano in maniera parziale i dati che li riguardano; risolvere la loro situazione richiede interventi strutturali sulle politiche del lavoro.

Il salario minimo viene spesso considerato una misura di contrasto alla povertà. In realtà non si tratta di un vero e proprio strumento con questo fine, in quanto possono beneficiarne solo i lavoratori, tagliando fuori i disoccupati. Avere un lavoro, tuttavia, non assicura il superamento della soglia di povertà: un’analisi dell’utilità del salario minimo richiede, quindi, di focalizzarsi sulla dimensione della povertà da lavoro.

Anzitutto è necessario definire il concetto di povertà da lavoro. Secondo la definizione dell’indicatore Eurostat i working poor sono gli individui che hanno lavorato per almeno metà anno e il cui reddito annuale famigliare equivalente è inferiore al reddito mediano nazionale. Si tratta quindi di un concetto complesso, con due dimensioni: una individuale (essere lavoratore) e una famigliare (il reddito considerato è quello del nucleo familiare e non del singolo).

A differenza dell’indice Eurostat, per la nostra analisi consideriamo il salario mensile netto individuale per dei vincoli imposti dai dati, anziché il reddito familiare annuo. Come mostrato nel grafico, la percentuale di lavoratori poveri sul totale degli occupati è rimasta stabile e alta nel tempo, e l’aumento nel 2020 a seguito della pandemia si somma a una problematica già presente e strutturale del nostro Paese.

Per comprendere meglio chi siano i working poor, in quale zona d’Italia risiedano e se siano giovani o anziani, abbiamo analizzato i micro-dati della Rilevazione Forza Lavoro dell’Istat (la principale indagine campionaria sul mercato del lavoro da cui vengono ricavate le stime ufficiali su occupati e disoccupati). Tramite l’analisi del salario netto mensile, questi dati permettono diversi livelli di approfondimento del fenomeno della povertà da lavoro.

Avere una retribuzione bassa è sicuramente associato con l’essere un lavoratore povero, ma altri fattori qui non considerati sono altrettanto importanti nel determinare la povertà lavorativa, come la composizione famigliare in termini di percettori di reddito e di componenti a carico, considerati invece nell’indice Eurostat.

Al di là dei dettagli tecnici sulla misurazione, come vedremo, alcune conclusioni chiave non cambiano: la povertà da lavoro merita una specifica attenzione anche negli interventi al suo contrasto. Il salario minimo è solo un tassello per affrontare la povertà da lavoro, ma è importante focalizzarsi sul fenomeno dei working poor nel suo complesso, perché la sfida non riguarda solo il mercato del lavoro. Infatti, secondo alcune analisi, in Europa e in Italia la povertà lavorativa è associata a una minor soddisfazione verso la propria vita, a più bassi indicatori di benessere mentale e a un maggiore senso di esclusione sociale.

Dove sono i working poor: la maggior parte vive al Sud

Per cominciare, analizziamo la povertà da lavoro a partire dalla dimensione geografica. Il focus regionale ci consente, tra l’altro, di contribuire al dibattito sull’eventuale differenziazione territoriale del livello del salario minimo.

Dalla nostra analisi emerge un dato: la maggior parte dei lavoratori poveri risiede al Sud. Tuttavia questo fatto non è ascrivibile alla differente distribuzione dei salari tra Regioni. Il salario mediano infatti è più alto al Nord che al Sud e nelle Isole, ma la percentuale di working poor è maggiore al Sud e nelle Isole sia considerando come riferimento il salario mediano nazionale che quello regionale. Il principale messaggio che emerge dall’analisi è che al Sud la maggiore presenza di working poor è dovuta a una consistente fascia della popolazione che rientra nelle fasce di reddito più basse, e non a scelte di misurazione.

I salari minori al Sud sono in parte associati a un minor costo della vita; tuttavia, ciò non spiega completamente il fenomeno della maggiore povertà da lavoro al Sud, che rimane più vasta che altrove anche quando consideriamo analisi intra-regionali. Questo suggerisce una declinazione almeno regionale del salario minimo.

Un altro elemento che salta all’occhio nei nostri dati sull’incidenza della povertà da lavoro è una evidente sottostima rispetto ad altri studi analoghi. La differenza dipende dai dati utilizzati e riflette in buona parte un punto chiave nella discussione sul salario minimo. Le stime superiori alle nostre utilizzano i salari percepiti nel corso dell’intero anno solare, mentre le nostre elaborazioni utilizzano i salari nel mese in cui è avvenuta l’intervista del lavoratore. Pertanto la differenza include anche l’instabilità dei contratti, un altro determinante cruciale della povertà da lavoro, di recente evidenziato anche dal gruppo ad hoc istituito presso il ministero del Lavoro.

Quest’ultima problematica non può essere risolta con l’introduzione di un minimo salariale, e dunque richiede strumenti di policy a sé stanti.

Meno soldi, ma anche meno ore. Le cause della povertà da lavoro

La precarietà dei contratti non è l’unica variabile che può distorcere confronti con altri studi; differenze sostanziali, infatti, possono emergere anche dall’analisi delle ore lavorate.

Non tutti i contratti di lavoro prevedono 40 ore settimanali, né tutti i contratti durano per tutto l’anno, e dunque la povertà da lavoro può emergere anche dal minor tempo lavorato. I dati che abbiamo utilizzato finora sono riferiti al salario netto mensile, che viene modificato solo indirettamente dall’introduzione di un minimo salariale orario.

Come spiegato, un basso numero di ore lavorate è una delle ragioni dell’elevata incidenza della povertà da lavoro, e questo può essere osservato ripetendo la nostra analisi e considerando un’approssimazione del salario orario. Tuttavia, la differenza nelle ore lavorate in media nelle venti Regioni italiane non spiega le diversità geografiche osservate.

Riassumendo, abbiamo visto come il salario minimo debba essere declinato almeno a livello regionale, in modo da tenere conto e affrontare l’eterogeneità della povertà da lavoro. Affinché si possa contrastare questo fenomeno, il minimo salariale dovrà essere necessariamente accompagnato da politiche che affrontino l’instabilità contrattuale e che intervengano sul tempo di lavoro.

Chi sono i working poor: il dato dei ventenni e quello nascosto delle donne

Un’altra possibile dimensione di analisi utilizzando i dati a livello individuale è quella per età e genere.

Anche per il fenomeno della povertà da lavoro, come più in generale accade nel mercato del lavoro, le fasce più penalizzate sono quelle dei giovani e delle donne. Come si evince dal grafico, il dato più preoccupante è quello relativo alla fascia d’età più giovane fra i 15 e i 19 anni, che va tuttavia interpretato con cautela per via del basso numero di lavoratori in quella fascia d’età (ad esempio, l’Istat non riporta quindicenni lavoratori per via dell’obbligo scolastico).

Allarma dunque di più il dato relativo ai ventenni, che è significativamente maggiore rispetto alla media nella popolazione. Evidente nel grafico è la maggiore incidenza della povertà da lavoro nelle donne rispetto che negli uomini. Nonostante tale differenza di genere non sia accettabile, e abbia conseguenze economiche e sociali non trascurabili, bisogna tenere in considerazione che una parte delle lavoratrici integra il reddito famigliare. Per questo, tenendo conto della definizione di povertà a livello di nucleo famigliare di Eurostat, queste lavoratrici non farebbero parte dei working poor. Non sorprende che secondo i dati europei, infatti, nel 2019 in Italia nella popolazione fra i 18 e i 64 anni l’incidenza della povertà da lavoro è di 3 punti percentuali maggiore per gli uomini (dato al 13,0%) che per le donne (dato al 10,1%). Una parte delle lavoratrici a basso reddito, infatti, è seconda percettrice di reddito, e pertanto non viene considerata come working poor.

Una grossa differenza tra donne e uomini potrebbe essere responsabile del divario presentato in precedenza: è possibile che le donne lavorino meno ore degli uomini, e che quindi abbiano uno stipendio mensile più basso per questo motivo. Possiamo quindi cercare di capire se questa differenza di genere sia dovuta alla differenza di ore lavorate oppure a diversi salari orari.

Calcolando una approssimazione del salario orario con i dati a nostra disposizione, notiamo che la penalizzazione di genere permane, anche se si riduce considerevolmente. Possiamo osservare questo fatto nel grafico sotto riportato, che considera solo i lavoratori e le lavoratrici a tempo pieno. La disuguaglianza di genere nei salari percepiti, dunque, non sembra essere una questione relativa alle ore lavorate, ma alla paga oraria inferiore che le donne ricevono rispetto agli uomini.

Il sostegno al lavoro e ai salari femminili risulta quindi chiave per due ragioni: in primis per ridurre le disuguaglianze di genere, anche all’interno dello stesso nucleo famigliare, e in secondo luogo perché la presenza di un secondo percettore di reddito riduce il rischio di povertà da lavoro per tutte le persone lavoratrici di un dato nucleo familiare.

In conclusione, riteniamo che l’introduzione del salario minimo sia un passo necessario, ma non sufficiente per affrontare il fenomeno della povertà da lavoro e le relative disuguaglianze territoriali e demografiche. È nostra opinione che questo strumento debba inserirsi in un più ampio insieme di politiche di sostegno al lavoro (ad esempio volte a incentivare la stabilità dei contratti) necessarie per il nostro Paese.

Ha collaborato all’articolo:

Sergio Inferrera – Laureato presso l’università Bocconi, ha lavorato in BCE come assistente di ricerca. È consulente di ricerca per CompNet e presso l’Università Bocconi. È inoltre senior fellow del think-tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

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