Articolo pubblicato per Econopoly – Il Sole24Ore

Da due estati, in controtendenza con le abitudini vacanziere a cui il paese è solito cedere, si parla molto della scuola. Se ne parla dal punto di vista logistico-organizzativo per l’anno che verrà. Se ne parla toccando il tema delle vaccinazioni di studenti e docenti, dei trasporti e della generica esigenza di pianificare un rientro in presenza sicuro. Se ne parla con uno sguardo rivolto ai mesi passati, ponendosi le grandi domande che caratterizzeranno le politiche educative dei prossimi anni: quale solco è stato lasciato dalla crisi pandemica – e dalle conseguenti chiusure scolastiche – sullo sviluppo dei ragazzi e delle ragazze? Come dovranno muoversi la scuola e le istituzioni a essa connesse per limare, colmare, e riparare le fratture emerse?

Secondo un rapporto di Save the Children uscito a marzo di quest’anno, durante l’anno scolastico 2020/21 sono stati offerti 61 giorni di scuola in presenza alle classi delle superiori di secondo grado su un totale atteso di 107, sia a Milano che a Palermo. Mentre sono solo 54 a Torino, 30 a Bari, e 27 a Napoli. Leggermente migliore la situazione per elementari e medie, ma in molte regioni è ancora ben lontana dalla normalità. In Europa e nel mondo si fanno i conti con problematiche simili: uno studio condotto su dati relativi alle performance di studenti olandesi ha evidenziato come al periodo trascorso in Dad (circa un quinto dell’anno scolastico) corrisponda una perdita di apprendimento pari a un quinto di ciò che si dovrebbe imparare in un anno.

Com’è facile immaginare, questo effetto è tanto più incisivo quanto peggiore è il contesto familiare dello studente, in termini di livello di istruzione dei genitori. A permettere di “isolare” l’impatto della Dad e di trarre conclusioni solide è la presenza di test nazionali standardizzati, ripetuti sia prima che dopo la chiusura scolastica e confrontabili con quelli degli anni precedenti. In Italia appartengono a questo tipo di strumenti le prove gestite dall’Invalsi, che dal Dpr 80/2013 coordina il Sistema Nazionale di Valutazione del sistema educativo e di formazione. Già ben prima della crisi pandemica il ruolo dei test standardizzati era espresso nel P.O.N. 2014-2020 come necessario alle analisi di trend per la valutazione dell’impatto delle politiche educative. O, purtroppo, degli altri shock del sistema.

Gli esiti delle prove Invalsi forse hanno bisogno di una narrazione diversa

Il 14 Luglio 2021 sono stati presentati i risultati delle prove Invalsi di quest’anno. Quello che dicono è stato bollato un po’ in tutti i modi, da “non sorprendente” a “drammatico”. L’etichetta più adeguata, forse, è quella che definisce le prove “utili”. Ma utili a cosa? Dal nostro punto di vista, pur con tutti i limiti che caratterizzano queste rilevazioni, la loro utilità è innegabile per almeno due elementi: 1) forniscono dati confrontabili con quelli degli anni precedenti e futuri, e 2) rappresentano un sistema di valutazione omogeneo sul territorio nazionale (a differenza, ad esempio, degli esami di fine ciclo).

Le prove Invalsi non dovrebbero essere percepite come una valutazione sulla qualità del sistema d’istruzione, ma come una restituzione – chiaramente semplificata – dello stato di alcune dimensioni relative alla scuola. Sotto questa luce ne andrebbero letti e raccontati i risultati, che anche quest’anno ci informano di rilevanti differenze nel raggiungimento degli outcome educativi, ad esempio tra gruppi socio-economici e territoriali. Considerando la scuola secondaria nel complesso, l’aumento della percentuale di studenti che non raggiungono un livello di apprendimento adeguato alla classe in cui si trovano risulta più marcato, rispetto al 2019, tra coloro che provengono da contesti socio-economici svantaggiati, in tutte le materie oggetto di prova. Queste differenze si accentuano nelle regioni meridionali, dove la disuguaglianza educativa sembra essere combattuta più faticosamente dalla scuola.

Dad e tecnologia: una questione di accesso alle attività scolastiche

Il mancato raggiungimento dei risultati educativi attesi è un campanello d’allarme, innanzitutto perché possibile causa di dispersione scolastica e abbandono. Malgrado sia difficile stabilire direttamente un rapporto di causalità con le chiusure scolastiche, sarebbe ingenuo leggere i risultati delle prove 2021 senza considerare il profondissimo impatto educativo e psicologico delle misure sanitarie. Da questi (e altri) dati bisogna partire per disegnare una strategia di intervento efficace, analizzando con consapevolezza lo scenario che gli attori del mondo dell’istruzione si trovano davanti. Il ruolo della ricerca basata sull’evidenza, come supporto al policy-making, è in questo contesto ancora una volta cruciale.

Pensando all’implementazione della didattica a distanza, ad esempio, è fondamentale capire chi non ha potuto usufruirne nel modo più adeguato e completo. Nel periodo in cui la Dad rappresentava l’unico canale di accesso alle attività scolastiche, esserne estromessi ha significato perdere completamente il contatto con la scuola, in termini di ore di lezione, relazioni con compagni e professori, e apprendimento.

Per rispondere a questa esigenza, Tortuga, in collaborazione con FFind e Renew Communication, ha condotto un’indagine statistica – i cui risultati verranno presentati in un prossimo report – su un campione di studenti che hanno svolto la maturità durante il primo periodo di lockdown e successivamente hanno intrapreso un percorso universitario.
Una prima analisi dei dati che emergono dall’indagine si concentra sui dispositivi usati dagli studenti e dalle studentesse per seguire le lezioni. Come prevedibile, il computer portatile è di gran lunga il dispositivo più utilizzato, insieme a quello fisso. Dividendo le percentuali, però, scopriamo come gli studenti nel gruppo socio-economico più basso siano quelli ad aver utilizzato maggiormente il cellulare per seguire le lezioni, una notizia non positiva considerata l’inadeguatezza di questo dispositivo.

Confermando questa evidenza, gli studenti dei gruppi socio-economici più svantaggiati sono anche quelli che maggiormente hanno lamentato la mancanza di un dispositivo adeguato e di una buona connessione durante la Dad (rispettivamente il 22,7% e il 69.1% degli intervistati in questo gruppo). In generale, dai nostri dati emerge come gli studenti e le studentesse più svantaggiati abbiano avuto più difficoltà rispetto ai propri compagni durante la Dad.

Infine, i nostri dati ci permettono di analizzare la correlazione tra le ore seguite in Dad durante la scuola superiore e la performance universitaria. Le evidenze preliminari ci mostrano una correlazione fortemente positiva, a rimarcare ancora di più l’effetto che la Dad ha avuto sugli studenti di buon sostituto della didattica tradizionale. Allo stesso tempo, però, lo stesso risultato deve metterci in guardia, perché il divario esistente tra studenti potrebbe essersi ampliato.

Chiaramente, l’indagine statistica che abbiamo proposto non rappresenta un’alternativa alla raccolta periodica di dati standardizzati a livello nazionale. Per conoscere ed analizzare accuratamente l’effetto della Dad servirebbero questo genere di dati, e non quelli provenienti da fonti sondaggistiche di iniziativa privata. Sebbene infatti le evidenze mostrate sembrino indicare un possibile aumento delle disuguaglianze educative, è importante potersi affidare a campionamenti statistici periodici e completi per indirizzare l’agenda di policy di questo governo e di quelli futuri, partendo con il garantire a tutti un rientro a scuola in sicurezza a settembre.

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