Articolo pubblicato per ECONOPOLY – Il Sole24Ore

I dipendenti pubblici in Italia costituiscono meno del 15% degli occupati, contro una media Ocse del 18%, e dal 2007 il settore pubblico ha visto costantemente diminuire il numero di impiegati a seguito del cosiddetto blocco del turnover. Conseguentemente, l’età media è cresciuta oltre i 50 anni e, ormai, quasi la metà dei dipendenti pubblici ne ha più di 55. Nei prossimi anni il comparto dovrà fronteggiare la sfida di sostituirne centinaia di migliaia. Di quante assunzioni parliamo esattamente? Il sistema è preparato per una tale sfida?

La dinamica del pubblico impiego e il fabbisogno futuro

Dal 2009 al 2018 il personale a tempo indeterminato nel settore pubblico è diminuito di almeno 140 mila unità passando da 3,11 a 2,97 milioni (in giallo nel grafico). Calo che, secondo i dati Inps, è continuato nel 2019 e risulta solo parzialmente compensato dall’aumento dei contratti a tempo determinato iniziato nel 2015.

Nel decennio 2009-2018, guardando al settore pubblico, nel complesso a ogni 10 pensionamenti corrispondono 7 nuove assunzioni. Cifre dovute al blocco del turnover in molti comparti e che, come abbiamo già avuto modo di osservare, collocano l’Italia agli ultimi posti della classifica Ocse per numero di dipendenti pubblici in rapporto al totale degli occupati.

Quali previsioni per gli anni a venire? Quanti pensionamenti è possibile prevedere? È possibile fornire una stima dei pensionamenti attesi nei prossimi anni utilizzando i dati Inps sui contratti a tempo indeterminato nel settore pubblico. Assumiamo che i pensionamenti avvengano solo per vecchiaia a 67 anni, che tutti i dipendenti con il requisito di età abbiano la richiesta anzianità contributiva e che al contempo non vi siano pensionamenti anticipati o deroghe al limite di età. Per il periodo 2019-2026 stimiamo che circa 530 mila persone uscirebbero dal settore pubblico. Lo stesso calcolo sui prossimi dieci anni porta a stimare 1,17 milioni di pensionamenti, corrispondente a quasi un terzo dei dipendenti pubblici attuali. Di questi il 40% avverrebbe nella scuola, e un 20% sia nelle amministrazioni locali che nel sistema sanitario. Senza tener conto del personale mancante già ora e alla luce del confronto europeo discusso precedentemente, sarebbe necessario almeno coprire tutte le cessazioni.

La capacità di assunzione

Se volessimo quindi assicurare un turnover al 100% del personale in uscita per pensionamento, sarebbero necessari concorsi pubblici che annualmente permettano l’assunzione di almeno 100mila unità l’anno per i prossimi dieci anni. Come mostrato dal grafico sopra, negli ultimi 10 anni raramente si è superata quota 80 mila assunzioni annue. Anche assumendo che il settore pubblico italiano abbia la capacità di organizzare i concorsi necessari ad assumere ogni anno più di centomila lavoratori, i ricorsi alla giustizia amministrativa possono rappresentare spesso una causa di ritardo. Stimare il numero di concorsi pubblici che sono ritardati da un ricorso è impresa complessa. Un articolo de Il Sole24Ore nel 2017 riportava che nei precedenti quattro anni erano stati presentati circa 10mila ricorsi in merito a concorsi pubblici. Questo numero, tuttavia, non rispecchia il numero reale di ricorrenti, dato che un ricorso può essere presentato da più persone. Un esempio di questo fenomeno è il caso dei 175 dirigenti dell’Agenzia delle Entrate che saranno assunti nel 2021 dopo aver vinto un concorso bandito nel 2010, sopravvissuto indenne ad un’ingente quantità di ricorsi.

Sebbene quest’ultimo sia un esempio estremo, la programmazione dei fabbisogni di personale e dei concorsi e la redazione delle norme che li regolano, dovrebbero tenere conto di questa criticità.

Il sistema italiano di reclutamento del personale pubblico è detto career-based, in quanto prevede l’ingresso nel settore pubblico all’inizio dell’esperienza professionale del lavoratore, tramite un concorso pubblico. Le progressioni di carriera, sia verticali – ovvero verso mansioni di più alta responsabilità – sia orizzontali – ovvero verso altri enti pubblici o comparti -, avvengono tutte all’interno del settore pubblico. Difficilmente, infatti, un lavoratore del settore privato potrà proseguire la propria carriera nel settore pubblico, soprattutto mantenendo mansioni di livello pari a quelle già raggiunte. Sia il concorso all’ingresso che le progressioni di carriera sono altamente formalizzate, rendendole molto lontane dai modelli e dalle logiche del settore privato. Nonostante alcuni tentativi di riforma, come la Direttiva n.3/2018 del Ministero della Pubblica Amministrazione, il sistema sconta alcune problematiche intrinseche.

Innanzitutto, manca un sistema coordinato di reclutamento. Seppure le recenti indicazioni raccomandino che gli enti si uniscano per procedere a concorsi unici, i concorsi pubblici in Italia rimangono estremamente frammentati, indetti da amministrazioni molto diverse tra loro, in termini di dimensioni, competenze, livello di governo, professionalità richieste. Questa frammentazione, dovuta alla decentralizzazione delle procedure di assunzione, rende molto difficile implementare logiche innovative nel sistema dei concorsi pubblici. Se si considerano anche le fluttuazioni di posti disponibili, i concorsi sono distribuiti irregolarmente nell’arco del tempo. La conseguenza è che il candidato dovrà tentare numerosi concorsi, per ruoli anche molto simili tra loro, non avendo però chiaro il tempo necessario a prepararsi e neppure potendo programmare i propri impegni. Se già lavora, dovrà probabilmente lasciare il proprio lavoro per poter tentare l’assunzione nel settore pubblico. La qualità media dei candidati potrebbe di conseguenza risentirne.

Inoltre, in un sistema basato sulla carriera, i concorsi pubblici favoriscono le persone con poca esperienza lavorativa. Questo rende difficile assumere personale qualificato in ruoli ad alta specializzazione, perché il settore privato offre opportunità salariali e di sviluppo professionale ben più dinamiche, anche a chi ha maturato solo alcuni anni di esperienza. Tuttavia, dati il blocco del turnover degli ultimi anni e la progressiva riduzione del numero di dipendenti pubblici dal 1992 ad oggi, paradossalmente il sistema inserisce sì persone ai livelli iniziali di responsabilità, ma non necessariamente giovani. Il criterio di età, inoltre, è valutato soltanto se i candidati hanno ottenuto parità di merito e di titoli. Ma anche in questo caso, al candidato più giovane sono preferiti sia quello con più figli, sia quello che ha prestato già servizio nelle amministrazioni pubbliche. Riuscire a rendere l’età un criterio di valutazione centrale – seppur non l’unico – favorirebbe capacità innovativa e dinamismo.

Infine, le procedure di selezione, al di là di alcuni tentativi lodevoli, faticano a testare le competenze e la componente attitudinale. L’economista Castaing suggerisce che i processi di selezione che considerano anche la componente valoriale e comportamentale risultano più efficaci nel verificare la coerenza fra questi e l’organizzazione.  Inoltre, negli ultimi 25 anni hanno preso piede gli studi sulla Public Service Motivation, che, secondo Vandenabeele, può essere definita come “le credenze, i valori e gli atteggiamenti che vanno oltre l’interesse personale e dell’organizzazione, e che riguardano l’interesse di una entità politica più grande”. Queste caratteristiche si ritrovano maggiormente nei dipendenti del settore pubblico, e suggeriscono che i dipendenti pubblici rispondano agli incentivi lavorativi in maniera diversa rispetto a quelli privati. Questa teoria ci suggerisce che il settore pubblico dovrebbe adottare quelle pratiche di reclutamento, anche tipiche del settore privato, che permettono di individuare tra i candidati quelli con un elevato livello di motivazione “intrinseca”, cioè non legata alla semplice remunerazione, e rintracciabile in caratteristiche quali la predisposizione ad aiutare il prossimo, il senso civico, la maggiore importanza attribuita al bene comune. Uno strumento come la lettera motivazionale si addice allo screening iniziale dei candidati, per concorsi di piccole dimensioni, ma anche alle fasi di selezione più avanzate, successive alla scrematura iniziale, in tutti gli altri.

Nei contributi di questa serie abbiamo tracciato alcune idee per il futuro del pubblico impiego. In questo articolo stimiamo che nei prossimi 10 anni i lavoratori in uscita dal settore pubblico potrebbero essere un terzo del totale. Le nuove assunzioni, necessarie almeno a mantenere il già basso rapporto di dipendenti pubblici sul totale della popolazione, dovranno prevedere sistemi diversi di valutazione. Riteniamo che servirà quindi valutare sia motivazione che competenze, migliorare il coordinamento di sistema, tenere conto dei gap esistenti a livello settoriale e geografico, e infine investire su una migliore – invece che semplicemente maggiore – presenza di impiegate pubbliche e di giovani.

Claudio Buongiorno Sottoriva*

Si è laureato in Economia e Scienze Sociali e in Economia di Governi e Organizzazioni Internazionali presso l’Università Bocconi. Attualmente è Ricercatore Junior presso il Centro di Ricerca CERGAS. Si interessa di tematiche di sanità, pubblica amministrazione e politiche pubbliche. Senior fellow del think-tank Tortuga, tramite il quale pubblica questo contributo.

Redazione

Author Redazione

More posts by Redazione