Articolo pubblicato per Linkiesta

L’Italia non ha più centrali sul suo territorio ma vanta una importante tradizione in materia. In più, essendo stata la prima a cambiare strada, è all’avanguardia nel decommissioning, in grado di gestire tutti i passaggi del processo in sicurezza sia per i lavoratori, i cittadini e l’ambiente

Oggi in Italia non ci sono centrali nucleari attive. E, soprattutto per i più giovani, sembra che l’Italia non abbia mai avuto collegamenti rilevanti con questo settore. Eppure, il Bel Paese nello scorso secolo ha giocato un ruolo chiave nello sviluppo del nucleare.

Cosa è rimasto di tutto ciò? In questo articolo ripercorriamo i maggiori eventi storici del nucleare in Italia ed evidenziamo come ancora oggi l’Italia continui a mantenere preziose competenze in questo campo, seppur in modo indiretto.

Un passato illustre
L’Italia ha avuto un passato intimamente legato al nucleare, grazie a grandi competenze in materia (ricordiamoci di illustri scienziati come Enrico Fermi) e un clima politico inizialmente favorevole all’utilizzo di questa fonte energetica.

L’Italia ha effettivamente generato elettricità da centrali nucleari tra il 1963 e il 1990. Il primo impianto è stato quello di Latina, avviato nel ’63, il più potente d’Europa per l’epoca. Sono seguiti gli impianti di Sessa Aurunca e Trino nei due anni seguenti e quello di Caorso del 1977. Tra gli anni ’60 e ’70 il nucleare italiano conobbe il periodo di massimo sviluppo: nel 1966 infatti, l’Italia era il terzo paese occidentale per potenza nucleare installata.

L’incidente di Chernobyl del 1986 portò però a un drastico cambio di rotta. Risalgono al 1987 i tre referendum abrogativi che diedero inizio alla scomparsa del nucleare in Italia. I quesiti si concentravano su localizzazione degli impianti, abrogazione del compenso dovuto ai comuni che ospitavano centrali nucleari e il divieto per l’Enel di svolgere attività inerente al nucleare all’estero.

La vittoria schiacciante del sì alle richieste di abrogazione alterò il consenso politico e diede inizio al declino del comparto nel nostro paese. Tra il 1988 e il 1990 le centrali ancora attive vennero chiuse. Nessuno dei tre referendum però vietava espressamente la costruzione di siti nucleari in Italia.

Un ritorno di fiamma
Infatti, nei primi anni del nuovo millennio, Enel cominciò a reinvestire in questa tecnologia. In questa scelta giocarono un ruolo anche l’abrogazione nel 2004 di uno dei tre referendum del 1987 (proprio quello che gli impediva di partecipare alla costruzione del nucleare all’estero) e un parallelo incremento generalizzato dei costi dei combustibili fossili.

Questi fattori mutarono notevolmente il quadro italiano: le società ripresero gli investimenti nel nucleare. Non si trattava però solo di azioni isolate come l’accordo di Enel per la costruzione di nuovi reattori in Slovacchia, ma anche di una nuova apertura della politica al nucleare. Nel febbraio 2009 infatti, il Governo Berlusconi firmò con la Francia un accordo per la costruzione di quattro nuovi impianti da parte di Enel in collaborazione con Edf (la maggiore società elettrica francese). La prima centrale sarebbe dovuta essere completata proprio nel 2020.

Nonostante gli obiettivi ambiziosi del Governo Berlusconi, nel 2010 l’Italia dei Valori propose un nuovo referendum sul tema, questa volta incentrato sulla costituzionalità o meno di una legge che permetteva di ignorare eventuali istanze regionali in materia di identificazione dei nuovi siti nucleari.

Dopo aver dato il proprio assenso, la corte costituzionale decise di fissare la data del referendum al 12-13 giugno 2011. L’11 Marzo 2011, tre reattori nucleari furono gravemente danneggiati da uno tsunami di 14 metri nel sito giapponese di Fukushima.

Per quanto l’opinione pubblica in materia di energia nucleare in Italia potesse essere cambiata con il nuovo millennio, il colpo fu durissimo. A soli tre mesi da un incidente nucleare di tale portata, la vittoria dell’abrogazione fu schiacciante: 94% dei votanti, per un quorum raggiunto del 55%. Questa volta l’abbandono del nucleare da parte dell’Italia fu davvero irreversibile, tant’è che l’Enel decise di disinvestire nel giro di pochi anni, questa volta senza esserne obbligata, praticamente tutte le risorse mobilizzate.

Un legame indiretto
In questi ultimi 10 anni, il nucleare è quindi davvero sparito completamente dal Bel Paese? In realtà, ancora una volta, la risposta è no. Il legame dell’Italia con il nucleare continua a resistere tutt’oggi, anche se non produciamo più elettricità dalle centrali. Due sono i principali canali che continuano a legarci a questo settore.

Il primo è il decommissioning: la procedura di smantellamento di un impianto nucleare, che consiste nell’allontanamento del combustibile, l’accertamento del grado di contaminazione radioattiva (la cosiddetta caratterizzazione radiologica), la decontaminazione delle strutture e infine la demolizione delle stesse/di queste ultime.

L’obiettivo del decommissioning è gestire l’intero processo in sicurezza sia per i lavoratori, che per i cittadini e l’ambiente, riportando il terreno su cui sorgeva la centrale allo stato originario, come con un prato verde (viene proprio detto green field).

Curiosamente, proprio perché siamo stati tra i primi ad abbandonare la strada del nucleare, l’Italia è di nuovo all’avanguardia in questa materia. Esempi di imprese che operano in questo settore sono Ansaldo Nucleare e Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari). Ansaldo opera lungo tutta la filiera: dalla costruzione di nuove centrali, al decommissioning e gestione di rifiuti nucleari, e offre i propri servizi a molti paesi esteri. Sogin, fondata nel 1999, è invece la società pubblica, completamente controllata dal ministero dell’Economia e Finanze, responsabile del decommissioning degli impianti nucleari italiani e della gestione dei rifiuti radioattivi.

Proprietaria di tutti gli impianti italiani dismessi, le sue operazioni sono caratterizzate da un approccio circolare allo smantellamento di siti nucleari, che mira a recuperare materiali come ferro, calcestruzzo e rame.

La pratica del decommissioning presenta sfide ingegneristiche e operative notevoli, soprattutto in Italia, visto che gli impianti nazionali sono molto diversi tra loro a livello tecnologico e non sono stati progettati tenendo conto della necessità di un loro smantellamento.

La decisione storica di abbandonare l’energia nucleare prima di altri paesi ha spinto entrambe le aziende a sviluppare delle competenze chiave prima di altri operatori esteri, creando l’opportunità per distinguersi in un settore con forte potenziale di sviluppo, soprattutto all’estero.

Come si legge dal bilancio 2019 di Ansaldo, la maggiore crescita del nucleare è attesa nei paesi orientali come Cina, India, Russia, con la costruzione di nuovi impianti. Il rafforzamento degli standard ambientali e di sicurezza porterà a una maggiore richiesta di servizi per gli impianti esistenti, soprattutto nei paesi occidentali con impianti più vecchi.

Le competenze di Sogin e Ansaldo saranno elementi chiave nel futuro dell’industria nucleare, non solo per la dismissione di vecchi impianti, ma anche per la gestione di rifiuti radioattivi di impianti operativi.

Vi è però anche una seconda connessione col nucleare ancora attiva nel nostro paese: quella del mondo accademico. L’Italia è storicamente legata agli studi in ambito nucleare. Basti pensare alle attività di ricerca pioneristica di Enrico Fermi ed Edoardo Amaldi. Una tradizione che continua ancora oggi, con università italiane che offrono corsi di laurea magistrale in ingegneria nucleare di alto livello, come il Politecnico di Milano, Torino, la Sapienza di Roma o all’Università di Pisa. Dagli anni ’60, l’Università italiana ha formato diverse migliaia di ingegneri nucleari (più di 8.000 fino al 2010). Studenti che se nel passato trovavano occupazione nel settore civile o della ricerca, oggi non hanno uno sbocco naturale nel nostro paese.

A oggi, dati specifici sull’occupazione dei neolaureati in ingegneria nucleare non sono – al meglio della nostra conoscenza – disponibili. I dati del corso di ingegneria nucleare del Politecnico di Milano possono però fornirci qualche suggerimento. In questo caso, nel 2018 meno del 10% ha trovato occupazione all’estero. Chi rimane in Italia è spesso costretto a reinventarsi, perlopiù all’interno di società di consulenza tecnologica, enti di ricerca, o consulenza aziendale.

Sebbene negli ultimi anni la volontà popolare si sia opposta a un utilizzo diretto dell’energia nucleare, ciò non ha determinato un’uscita totale dall’Italia da questa industria, né sembra precluderne necessariamente un ruolo determinante (per quanto, per il momento, indiretto) negli anni a venire.

Decommissioning, gestione dei rifiuti e università sono tre esempi di come l’Italia continui a mantenere un ruolo attivo, e spesso di eccellenza, in questo settore.

L’articolo è stato scritto con il contributo di Luca Bertoni. Bresciano, studente all’università di Utrecht del MSc in Energy Science

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