Articolo pubblicato sull’Huffington Post il 20/11/2019

Un recente dibattito sulla concentrazione di ricchezza nelle grandi città, rilanciato dal Guardian e dalle dichiarazioni del ministro Provenzano, sembra mettere sotto accusa il modello di crescita di Milano e delle altre grandi metropoli europee.

La divergenza geografica ci racconta una storia di vincitori e sconfitti, declinazione territoriale dell’economia degli “winners take all” già ampiamente dibattuta nella letteratura economica. Mentre la faglia italiana Nord-Sud si sovrappone a quella continentale tra Mitteleuropa e Paesi mediterranei, stanno emergendo nuovi divari interni alle regioni stesse, tra centri e periferie, tra metropoli e aree interne.

Gli squilibri di carattere geografico si sviluppano in parallelo a una polarizzazione del mercato del lavoro tra professioni ad alto capitale umano, che beneficiano dell’integrazione internazionale e dell’adozione di nuove tecnologie, e vecchi lavori a rischio automazione, generando disuguaglianze economiche e lacerazioni sociali, politiche e persino culturali.

Il divario territoriale è quindi un tassello di un mosaico più ampio di fratture su varie dimensioni, pur conservando la sua specificità. Il mercato, quando funziona, seleziona senza pietà: il capitale vola dov’è più produttivo e chi non è competitivo fallisce. Può suonare brutale, ma la riallocazione delle risorse non è di per sé un male, specie se la politica gestisce le transizioni e protegge i lavoratori.

Eppure, questo meccanismo di distruzione creativa non può funzionare a livello geografico: se il Sud fallisce resta lì dov’è, con le opportunità negate alle nuove generazioni e lo spreco di un potenziale inespresso. Certo, anche se non si spostano i territori si muovono le persone, ma l’effetto collaterale di migrazioni interne in larga scala, specie se relative ai giovani più promettenti, è il rischio di una desertificazione di capitale umano nelle zone ai confini della globalizzazione, che consolida la divergenza e la rende irrecuperabile.

Gli effetti sono locali, ma il problema è di natura sistemica, riguarda cioè le dinamiche strutturali intrinseche al modello di sviluppo attuale, basato sulla diffusione della conoscenza e sull’integrazione in reti economiche e sociali, dove la vicinanza ai centri di agglomerazione è fondamentale. Se il problema è sistemico, un certo moralismo contro (o per) Milano è da evitare: non è sua la colpa se ha un modello vincente, né allo stesso modo è esclusiva responsabilità degli altri amministratori locali se i loro territori non tengono il passo.

Al netto degli indiscutibili meriti di Milano, infatti, la sua fortuna deriva anche da due vantaggi di natura geografica e storica su cui altri centri urbani non possono contare, cioè essere una metropoli ed essere vicina all’Europa continentale. I benefici esponenziali che derivano da questi asset di rete sono relativamente recenti: mentre un sistema agricolo o industriale è di per sé quasi autosufficiente, la nostra economia basata sulla conoscenza rende più produttivo chi lavora a fianco di chi è già produttivo, aggregando talenti in spazi sempre più ristretti, col rischio di trattenere in network chiusi i dividendi dello sviluppo.

Un esempio noto è il risultato di uno studio di Enrico Moretti, il quale ne “La nuova geografia del lavoro” (Feltrinelli, 2014) stima che per ogni rapporto di lavoro in una realtà innovativa d’eccellenza nascono cinque altri posti di lavoro nella zona circostante: si tratta di professioni che arricchiscono chi le svolge e di conseguenza danno sviluppo allo spazio urbano circostante, che cresce appunto attorno a reti di persone con elevato potere d’acquisto. Il sistema stesso quindi consolida i successi e rende i modelli vincenti non replicabili altrove: non basta dunque imitare Milano per ottenere gli stessi risultati.

Ne deriva che una spiegazione esclusivamente “meritocratica” risulta poco credibile quando si parla di economie di agglomerazione. Se il sistema valorizza strutturalmente i risultati precedenti, infatti, il vantaggio locale si tramuta in una rendita di posizione, cioè l’opposto del merito. Lasciare interi territori in condizioni di sottosviluppo, inoltre, ha evidenti controindicazioni economiche e politiche.

Da una parte si sfruttano i talenti di pochissimi lasciando inespresso il potenziale di molti, dall’altra il risentimento degli esclusi è difficilmente sostenibile a livello politico: basti guardare alla spaccatura evidente nella geografia elettorale delle vittorie di Trump, della Brexit o del M5S. Se non si interviene in modo radicale per contrastare la marginalizzazione di alcuni territori, il rischio non trascurabile è che chi è tagliato fuori faccia saltare il banco.

Il tema è dunque “come” intervenire. Per quanto detto finora, un certo grado di divergenza è inevitabile. Non si può pretendere che tutti i territori vadano alla stessa velocità, perché l’uguaglianza si otterrebbe livellando verso il basso e questo non conviene a nessuno.

Se Milano rallenta, infatti, paghiamo tutti. Le metropoli sono spesso integrate in catene del valore globale e funzionano come sbocco di una filiera nazionale, in entrata e in uscita: centri ricettivi di innovazioni internazionali, che passano da Milano per essere esempio nel resto del paese, e vetrina internazionale per la promozione delle nostre eccellenze all’estero. L’Italia senza Milano rischierebbe di essere tagliata fuori da questa rete sovranazionale e il prezzo lo pagherebbero anche le zone già dimenticate.

Ciononostante, qualcosa si può fare. Più che pretendere che le aree interne viaggino alla stessa velocità delle metropoli, bisogna moltiplicare queste ultime e renderle più vicine alle prime. Se il dramma attuale è che molti pezzi del Paese hanno una distanza siderale da distretti che attraggono investimenti e veicolano conoscenza, quel che serve è una Milano raggiungibile da ogni area interna.

Per far questo serve investire perché altri 3 o 4 centri urbani, sparsi da Nord a Sud, somiglino sempre più a Milano e perché ognuno di essi sia più vicino all’area circostante, dove la misura della distanza non è solo geografica, ma dipende dalla velocità e dal costo del collegamento. Rendere i centri di agglomerazione più vicini, quindi, per evitare che l’emarginazione economica e culturale trasformi il dato geografico in una ragione di esclusione sociale.

(Questo post è stato scritto da Bernardo Mottironi, membro di Tortuga)

Redazione

Author Redazione

More posts by Redazione