Articolo pubblicato su Econopoly – Il Sole24Ore

In un articolo precedente, abbiamo documentato che la divergenza strutturale fra Nord e Sud Italia sta aumentando, secondo gli indicatori relativi alla salute, all’innovazione, all’educazione e al lavoro. Nel nostro paese, gli ingredienti fondamentali della crescita economica sono sempre più scarsi laddove l‘economia è stagnante e sempre più presenti nelle regioni più dinamiche e sviluppate: in questo modo, la convergenza economica fra regioni sembra impossibile. Ma l’Italia non è l’unica: diversi economisti hanno dimostrato come sia in atto un processo di divergenza economica fra aree geografiche nella maggioranza dei paesi sviluppati. Una divergenza legata all’innovazione tecnologica, alla globalizzazione e allo sviluppo del capitale umano.

La disuguaglianza regionale sembra anche avere effetti importanti di polarizzazione dell’elettorato: Brexit, Trump e i movimenti populisti europei sono figli, in qualche modo, di queste dinamiche. Questo accade perché non tutti i cittadini beneficiano ugualmente dalla globalizzazione e dall’innovazione tecnologica: c’è chi è stato lasciato indietro e ora richiede a gran voce la sua fetta di torta, come ci racconta il report di Brookings. Gli effetti del problema si notano anche in Italia, caratterizzata da una forte polarizzazione elettorale nelle ultime elezioni politiche, che ora rischiano di deflagrare in occasione del possibile avvio di un processo di autonomie regionali differenziate.

Quali sono le politiche da immaginare per contrastare questo fenomeno e per realizzare una politica di crescita inclusiva?

L’Italia non è l’unica: la grande divergenza

La figura 1 mostra le profonde divergenze nel Pil pro capite a livello regionale, più o meno marcate, in tutti i paesi Ocse. L’Italia si posiziona poco sopra la media, mentre spiccano, invece, le enormi disparità regionali di Regno Unito, Germania e Francia. Pertanto, la divergenza non è unica alla situazione italiana.

Figura 1 – rapporto tra Pil pro capite delle diverse regioni

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Fonte: Ocse, Rapporto fra regioni 2016 (Tl3);

Un importante fattore da cui deriva la divergenza economica – fra i tanti – è la capacità di innovare, che tende a essere distribuita in modo eterogeneo all’interno di uno stato, in forma di cluster: agglomerati geografici dove si condensano le imprese più innovative e i lavoratori più dinamici. Per esempio, in Francia, come dimostra la figura 2, cinque sole regioni registrano il 70% dei brevetti nazionali e quattro di queste sono situate nei pressi di Parigi.

Figura 2 – Le 5 regioni francesi più produttive in termini di brevetti (in rosso)

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Fonte: Epo (2013);

Intuitivamente, l’innovazione tecnologica tende a fiorire laddove è presente una maggiore concentrazione di scienziati, ingegneri, imprese innovative e centri di ricerca: lo spiega Enrico Moretti, economista italiano all’Università della California, nel suo libro “La nuova geografia del lavoro” (Mondadori, 2013). La grande divergenza tra aree geografiche – come la definisce Moretti – è in atto perché i lavoratori ad alta qualificazione sono molto più propensi, rispetto al passato, a trasferirsi nelle città più innovative. Perciò, le città con un ambiente altamente innovativo hanno una maggiore probabilità di attrarne: questa dinamica genera un circolo virtuoso, che porta crescita, innovazione e maggiore benessere.

La generazione di cluster è necessaria per mantenere un alto grado di innovazione e di produttività. Non va inoltre considerata solo una questione di innovazione tecnologica: i cluster sono necessari a un paese per competere a livello globale. Dall’altro lato, città e regioni intere a basso capitale umano e a bassa crescita sperimentano fenomeni di stagnazione economica, fuga dei cervelli e un calo generalizzato del benessere collettivo. Perciò, secondo Moretti, bisognerebbe definire programmi capaci di ridurre il rischio di impresa e aumentare la disponibilità di venture capital nelle regioni meno sviluppate.

Una nuova crescita

Qualche decennio fa, gli economisti avrebbero pensato che una simile dinamica non fosse possibile: secondo le teorie economiche il rendimento costante o decrescente del capitale (vale a dire, più investi meno guadagni proporzionalmente) dovrebbe incentivare gli imprenditori delle aree sviluppate a investire in quelle meno sviluppate, in modo da ottenere un rendimento maggiore sul capitale investito. In questo modo, la mobilità del capitale avrebbe dovuto favorire automaticamente un processo di convergenza fra aree geografiche. Cosa è cambiato?

Ciò che diversi studiosi hanno ipotizzato è che la crescita attuale, legata indissolubilmente al capitale umano e alle nuove tecnologie, presenti rendimenti di scala crescenti (la proporzione di rendimento cresce all’aumentare dell’investimento). Così, gli investimenti in ricerca e sviluppo generano un rendimento crescente del capitale. Pertanto, i produttori più innovativi sono sempre meno soggetti alle limitazioni della capacità produttiva e, perciò, sono in grado di aumentare il proprio peso nel mercato ed espandersi anche in altri settori. Di conseguenza, l’impresa più innovativa sarà in grado di catturare l’intero mercato di riferimento e di imporsi come leader mondiale.

Quali politiche per la convergenza?

L’Economist ha dedicato un intero volume al tema, in cui viene citata la ricerca di Kolko e Nueumark. I due studiosi dimostrano che i programmi di sussidi statali e di crediti fiscali per incoraggiare la rilocalizzazione di imprese nelle zone degli Stati Uniti più povere non hanno funzionato, se non temporaneamente. D’altronde, in Unione Europea, assistiamo a dinamiche simili.

Il rapporto sulla convergenza socioeconomica in Unione Europea del 2018 ha proposto diverse politiche di contrasto alla divergenza regionale. Fra queste, l’introduzione di un meccanismo di coordinamento per il salario minimo europeo, utile anche a contrastare la povertà e supportare la domanda aggregata. Tuttavia, gli autori sono consapevoli della difficoltà di attuazione di un meccanismo simile e dei possibili effetti negativi sulla posizione competitiva di quei settori che necessitano lavoratori a bassa qualifica. Altri autori, consapevoli del trade-off tra equità ed efficienza delle politiche pubbliche, propongono di concentrarsi su entrambi i fronti: da una parte supportare lo sviluppo economico e l’innovazione nelle regioni più dinamiche ma, allo stesso tempo, contrastare la spirale negativa delle regioni a basso sviluppo. Come? Cercando di diversificare l’economia di quest’ultime verso settori più innovativi, sviluppando il capitale umano e investendo nei lavoratori a bassa qualifica, affinché acquisiscano le competenze richieste dal mercato del lavoro.

Inoltre, la mobilità dei lavoratori sembra favorire esclusivamente i lavoratori qualificati, che hanno già maggiori opportunità a livello nazionale e internazionale, mentre i lavoratori poco qualificati non possono permettersi il lusso di emigrare. Paradossalmente, una politica di investimento per l’acquisizione di competenze e nuove abilità potrebbe essere controproducente: i lavoratori coinvolti, una volta acquisite le competenze necessarie, potrebbero decidere di emigrare verso zone maggiormente sviluppate, vanificando così l’intervento pubblico.

Due economisti, uno  repubblicano e l’altro democratico, hanno ideato una proposta bipartisan per contrastare la divergenza regionale negli Stati Uniti. I due autori immaginano un fondo simile a un venture capital fund, capace di attrarre capitale da diversi investitori, ma operando esclusivamente a livello locale, con un regime fiscale agevolato. In questo modo, si potrebbero finanziare investimenti importanti e – insieme a politiche di sviluppo del capitale umano e alla creazione di posti di lavoro altamente qualificati – generare un processo di convergenza e di crescita. In Italia, equivarrebbe a una “Cassa del Mezzogiorno 2.0”, che operi utilizzando capitale di rischio di investitori privati.

La crescita non aspetta

La forbice si sta allargando e la rabbia di chi è stato lasciato indietro aumenta: è arrivato il momento di definire nuove politiche, sostenibili ed efficaci, per generare una crescita inclusiva. La crescente disparità territoriale ha effetti negativi dal punto di vista sociale, economico e politico: le proposte e le idee ci sono, è ora di metterle in pratica. D’altronde, la crescita non aspetta.

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