Articolo pubblicato per Econopoly – Il Sole24ORE

Cogliamo l’invito al dibattito di Gabriele Guzzi rispondendo al suo articolo su questo stesso blog. Riteniamo importante infatti sviluppare un confronto sulla principale misura economica del governo in carica. Per di più, una misura ancora in discussione in Parlamento e perciò suscettibile di modifiche, anche se per ora – nonostante le numerose criticità evidenziate dalle istituzioni e associazioni chiamate in audizione in Parlamento – non sembrano essere stati annunciati correttivi. Il dibattito va però riportato all’interno del merito del provvedimento.

Nell’articolo di Guzzi si affrontano due punti di critica al reddito di cittadinanza: il primo è che l’importo è troppo elevato rispetto ai salari medi correnti, il secondo che una fetta del reddito potrebbe andare ai soliti furbetti che riusciranno a evadere i controlli. Argomenteremo perché, sebbene cogliamo il punto sulla narrazione sbagliata alla base delle critiche e sugli ampi problemi che vengono citati in riferimento a disuguaglianza e redistribuzione, nessuno dei due temi giustifica o può essere risolto tramite il reddito di cittadinanza. Sono infatti argomentazioni che non colgono il punto, né possono difendere il reddito di cittadinanza come proposto dal governo.

La narrazione sbagliata

Esiste un problema di narrazione? Sì, è parziale da parte dei critici focalizzare l’attenzione esclusivamente sul disincentivo al lavoro di un reddito minimo in quanto tale o sulla possibilità che lo sfrutti qualche furbetto. È vero che sarebbe meglio indignarsi perché i salari sono così bassi ed è ugualmente vero che l’elusione fiscale è un problema più importante di eventuali furbetti. Proprio per questo motivo però è necessario riflettere seriamente su come incentivare una crescita strutturale dei salari (ne scrivevamo già nel 2015) e come armonizzare la tassazione europea per evitare giochi al ribasso. Il reddito di cittadinanza, purtroppo, non aiuta per nessuno dei due obiettivi. Ristabiliamo dunque il campo del dibattito.

Perché il reddito di cittadinanza non può essere la risposta

Mentre è evidente che il reddito di cittadinanza è completamente slegato dalla lotta all’elusione fiscale (e non capiamo perché Guzzi la citi, rischiando di cadere nel benaltrismo), cerchiamo di chiarire perché non può essere nemmeno la risposta a una legittima richiesta di aumento dei salari.

Primo, la produttività in Italia è stagnante quanto il reddito. Non è dunque vero, almeno per l’Italia, che vi è una divergenza tra aumento della produttività e aumento dei salari, come mostra la figura 1. Nell’articolo vengono citati i dati del G20, tra i quali figurano molti paesi (almeno tra quelli europei) dotati di forme di reddito minimo. Non si comprende dunque il legame tra la presenza di strumenti di welfare contro la povertà e l’allineamento fra salario e produttività. È difficile insomma sostenere per l’Italia l’argomentazione per cui una forma di reddito minimo che va ad alzare il salario di riserva, cioè il minimo che il potenziale lavoratore è disposto ad accettare, può portare a una redistribuzione del guadagno di produttività dall’impresa al lavoratore.

Per di più, un assegno così alto – oltre che in alcune regioni sproporzionato al costo della vita, come vedremo – rischia di ottenere l’effetto opposto. Aumentando in modo così evidente i salari di riserva, si potrebbe disincentivare il lavoro per il semplice fatto di richiedere alle imprese salari troppo elevati rispetto alla loro produttività. L’effetto sarebbe quindi la trappola della povertà, che lascerebbe i 2,5 milioni di beneficiari a rischio di rimanere imprigionati nella loro condizione.

Figura 1: Confronto fra l’andamento del reddito medio e della produttività in Italia

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Fonte: Ocse

In aggiunta, anche se ci fosse questo spazio di redistribuzione, ci sono altri motivi per cui il reddito di cittadinanza avrebbe una bassa probabilità di essere efficace nel far crescere i salari. Come fanno notare Andrea Garnero e Andrea Salvatori su Lavoce.info, la platea cui il reddito si riferisce è a bassa scolarità, con poche esperienze di lavoro alle spalle o con problemi di salute in famiglia, dunque in una posizione negoziale debole per sostenere un alto salario di riserva. Inoltre si tratta di una platea relativamente contenuta, che difficilmente può influenzare le dinamiche salariali aggregate, e sarà in competizione con tutti gli esclusi dalla misura (come, ad esempio, gli stranieri non residenti da più di 10 anni, e l’80 per cento dei disoccupati). D’altra parte, potrebbe invece spingere verso un’ulteriore compressione salariale, dando spazio alle imprese per una riduzione dei salari più bassi comunque compensati dal sussidio.

I veri problemi del reddito di cittadinanza

Può invece avere senso concentrare il dibattito sulle caratteristiche proprie del reddito di cittadinanza. Lo stesso Guzzi ammette infatti le imprecisioni, che – a nostro avviso – sono talmente macroscopiche da mettere a rischio la riuscita della policy. Il sussidio non è legato al costo della vita e risulta dunque enormemente squilibrato tra le varie regioni d’Italia.

Il necessario contenimento dei costi porterà inoltre a forti disuguaglianze: se l’assegno-simbolo dei 780 euro al mese è stato mantenuto per i single, sono stati invece tagliati fino al 40 per cento gli importi previsti per le famiglie più numerose, cioè quelle che secondo Istat sono tra le più colpite dalla povertà. In questo modo si escludono centinaia di migliaia di persone, che pur povere non potranno avere il sussidio. Inoltre l’approccio lavoristico del reddito di cittadinanza rischia di rappresentare una vera e propria trappola della povertà per chi ne beneficerà.

Il modello così impostato assomiglia a quello dei mini-jobs tedeschi, con prospettive molto scarse di fuoriuscita dal programma di welfare e una probabile riduzione salariale e di qualità lavorativa, facendo entrare i più poveri in un calvario di offerte di lavoro impossibili da rifiutare e paghe molto basse, compensate dal sussidio. Per di più il meccanismo di incentivazione alle imprese svantaggia i più deboli: lo sconto fiscale per le imprese che assumeranno i beneficiari a tempo indeterminato e full time sarà pari ai mesi mancanti alla fine del sussidio per il beneficiario assunto, che dura 18 mesi. Se si viene assunti al primo mese di sussidio, il datore di lavoro riceverà i restanti 17 mesi; se si viene assunti al 17esimo mese, l’azienda beneficerà solo di 1 mese di sconto.

L’incentivo alle imprese diminuisce dunque con il tempo impiegato dal beneficiario per trovare lavoro ed è ragionevole pensare che chi avrà bisogno di più tempo per trovarlo sarà proprio chi è meno qualificato e dunque più incline all’esclusione dalla forza lavoro. In questo modo si rischia di marginalizzare i più fragili. Dannosa è infine la scelta di associare al reddito di cittadinanza “quota 100”, aumentando la spesa pensionistica già a livelli record del nostro paese, il cui squilibrio è stato fino a ora un motivo fondamentale per cui abbiamo destinato così pochi fondi al contrasto alla povertà.

L’Italia ha molti problemi strutturali che vanno affrontati. Ma additare come responsabile di ogni male il “neoliberismo” è semplicistico, per di più in un paese in cui le rendite sono ancora estremamente persistenti. La redistribuzione, la lotta alla povertà, le opportunità per tutti sono priorità. Un reddito minimo efficace sarebbe una risposta alla giusta domanda, ma rischia di essere gettato al vento per appetiti elettorali. Un sussidio fatto in fretta, finanziato in deficit, slegato dal costo della vita, rischia di ottenere il contrario di quanto si prefigge: abbandonare i poveri nella trappola della loro condizione, senza dar loro gli strumenti per uscirne. Detto da giovani studenti e ricercatori di economia, sia ben chiaro.

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