Articolo scritto per YouTrend

Come si ripercuotono a livello elettorale i gap economico-sociali che esistono tra le aree urbane e quelle più periferiche?

Try to impeach this

Qualche settimana fa Trump ha twittato provocatoriamente “Try to impeach this”, riferendosi alla prevalenza di contee “rosse”, ossia quelle vinte dal tycoon nelle elezioni del 2016: si tratta di una vittoria figlia dell’elevato supporto concentrato nelle campagne e nelle zone rurali a scapito dei democratici concentrati nelle città. Questo pattern però ricorre anche altrove: in Francia Le Pen nel 2017 ottenne il 40% nelle zone rurali e il 30% nei centri densamente abitati, mentre Macron sfiorava il 90% a Parigi. Lo stesso fenomeno è anche alla base del Leave britannico del 2016, che dominò nelle campagne e nelle aree deindustrializzate, ottenendo il 55% contro il 52% a livello nazionale, fino ad arrivare in Polonia, Ungheria, Turchia e nelle Filippine. Tutti questi Paesi sono accomunati dal predominio dei diversi movimenti populisti esplosi recentemente nelle periferie.

 

E l’Italia? Come mostrato dalla recente polemica sul gap economico fra Milano ed il resto del Paese, il tema è di estrema attualità. Infatti, l’ondata populista che ha portato al governo giallo-verde ha la sua forza non tanto nelle città che trainano l’economia nazionale, quanto nei luoghi relegati in secondo piano: le periferie, appunto, di luogo e di fatto, accomunate in vari paesi dell’Occidente dalla volontà di spazzare via l’establishment. Ecco la rivincita dei “luoghi che non contano”.

Centri e periferie

Le differenze socio-politiche fra centri e periferie risalgono alle origini della Repubblica, quando la classe di appartenenza era fortemente correlata al voto alle urne. Più recentemente, a fronte di una maggiore frammentazione politica e sociale, il divario ha iniziato a riemergere prepotentemente in occasione del No al referendum del 2016. Successivamente, nelle elezioni politiche del 2018, il divario ha premiato Lega e Movimento 5 Stelle, ovvero i portatori del messaggio anti-establishment. Nonostante le polemiche sui fondi alle periferie, il trend si è riconfermato in occasione delle ultime elezioni europee, come evidenziato dall’eloquente mappa relativa a Roma. Nella capitale, la Lega è risultata il partito più votato nelle zone circostanti il Grande Raccordo Anulare, caratterizzate da minore presenza di servizi, mentre il PD ha raccolto consensi al suo interno, confermando la sua recente natura di “partito delle ZTL”.

Una seconda chiave di lettura è quella del contrasto fra centri urbani e campagne, o fra città e provincia. Anche in questo caso i partiti populisti viaggiano su percentuali più alte nei luoghi più periferici, prevalendo nelle aree extra-urbane sia alle elezioni politiche del 2018 che alle europee di quest’anno. Infatti, gli ex alleati del governo gialloverde hanno ottenuto il 54% nelle aree rurali (come definite dall’OCSE, ossia comuni con densità inferiore ai 150 abitanti/km quadrato) ed il 51% nei centri urbani, mentre il PD ha ottenuto il 23% nelle città e solo il 19% in campagna (elaborazioni su dati del Ministero dell’Interno).

Le aree interne

È possibile soffermarsi su una terza chiave di lettura della divisione tra centro e periferia che consideri sia la marginalità geografica che l’accesso ai servizi: quella delle aree interne, elaborata nel 2012 nell’ambito della Strategia Nazionale per le Aree Interne (Snai) dall’Agenzia per la Coesione Territoriale. Al fine di valutare la marginalità in maniera concreta, la classificazione dei comuni avviene sulla base di tre servizi primari: la presenza di un’offerta scolastica secondaria completa, comprensiva di almeno un liceo, un istituto tecnico e uno professionale; la presenza di almeno un ospedale sede di Dea di I livello (ovvero non di un semplice pronto soccorso); la presenza di una stazione ferroviaria di dimensioni medio/piccole e a frequentazione consistente.

I comuni (o insiemi di comuni confinanti) che soddisfano questi requisiti sono considerati “poli”, mentre tutti quelli che distano più di 20 minuti da un polo rientrano nelle aree interne, le quali, per quanto marginalizzate, sono tutt’altro che irrilevanti. Includono infatti circa metà dei quasi 8mila comuni italiani, coprendo due terzi della superficie e ospitando poco meno di un italiano su quattro. Sono quindi grosse fette del Paese, che però vanno spopolandosi: il Resoconto del 2018 sulle Economie Regionali della Banca d’Italia evidenzia che fra il 1951 ed il 2011, mentre in Italia la popolazione cresceva del 25%, nelle aree interne vi era un calo pari quasi all’8%, trend che non mostra segni di inversione. Si tratta di luoghi in cui la marginalità è tangibile, con una mobilità dei docenti della scuola secondaria del 50% superiore al resto del paese, una maggiore dispersione scolastica, e dove oltre l’11% della popolazione non è raggiunto da banda larga (più del doppio del dato nazionale). Sono aree marginali anche a livello economico, con un tasso di occupazione più basso (42% contro 45%) e imprese più piccole della media italiana, concentrate nell’edilizia e nell’agricoltura, seppur con una minore incidenza delle produzioni Doc e Igp.

Ebbene alle urne questi “luoghi che non contano” hanno premiato i partiti anti-establishment. Nel 2018 Lega e M5S hanno ottenuto il 52% nelle aree interne (contro il 50% nazionale), mentre alle ultime elezioni europee M5S e Lega sono saliti al 54% (contro il 51% nelle aree centrali), laddove il PD ha ottenuto rispettivamente il 18% e 24%. Le mappe che seguono mostrano il partito vincitore nei comuni di centri urbani e aree interne, evidenziando un’ondata giallo-verde che ricorda quella a favore di Trump nelle contee americane, con occasionali macchie rosse nei grandi centri o in pochi comuni interni.

In linea con quanto osservato all’estero, dunque, le diverse periferie del nostro paese rappresentano il principale supporto dei partiti populisti e anti-sistema. Dietro questa “vendetta elettorale” vi è quella che il Forum DD definisce “diseguaglianza di riconoscimento”, ossia la misura in cui ruolo, valori ed aspirazioni della persona sono riconosciuti da parte della collettività e della cultura generale. Un tema – quello delle aree periferiche – troppo spesso escluso dal dibattito quotidiano e che può contribuire ad aggravare la percezione di disuguaglianza. Questo divario trova conferma anche nei dati, con un distacco tra centri e periferie esploso negli ultimi 20 anni nei Paesi OCSE. Per lenire ciò non sono sufficienti piani e finanziamenti una tantum, bensì progetti di sviluppo associati a nuove sinergie fra amministrazioni centrali e locali, accompagnati da un adeguamento dei servizi essenziali, come proposto nella Snai. Un esempio è dato dal Piano Banda Ultra Larga, attuato da una società in-house del Ministero dello Sviluppo Economico, che entro la fine del 2020 dovrebbe assicurare servizi internet a banda larga anche nelle cosiddette “aree a fallimento di mercato”, dove il privato non ha interesse a investire. Questo è uno dei possibili interventi necessari per iniziare a integrare la moltitudine di periferie, italiane e non: l’integrazione economica può essere infatti una leva importante per lenire quel senso di mancato riconoscimento che troppo spesso alimenta rabbia e insofferenza. Questo sviluppo, però, deve essere coordinato dal soggetto pubblico, per evitare una focalizzazione dell’intervento privato nelle sole aree più redditizie: l’integrazione potrebbe e dovrebbe quindi portare all’inclusione.

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